Per la seconda volta e sempre in India, una delle più grandi aziende del mondo specializzata in sementi e avvezza a citare stagionalmente in giudizio i contadini che non si sono affidati all’acquisto delle sue sementi, ma i cui campi confinano con altri che usano semi transgenici Monsanto, si trova a fare l’imputato.

Qualcosa nei rapporti tra il rampante stato asiatico e la grande multinazionale americana si era già incrinato in febbraio quando, come ricordato da Unimondo, l’India, pur con la sua politica pro ogm, aveva mosso alcune perplessità sulla sicurezza alimentare della melanzana transgenica Monsanto. Ma non solo di perplessità alimentari, quanto di furto, si tratta ora. L’11 agosto scorso, infatti, la National Biodiversity Authority (Nba) dell’India aveva annunciato di aver avviato delle azioni giudiziarie contro l’azienda americana Monsanto “per aver sfruttato e utilizzato delle varietà locali di melanzana senza precedente autorizzazione delle autorità competenti”. Così in questi giorni gli avvocati stanno preparando i termini di un imminente dibattimento che potrebbe segnare per sempre il modo in cui le multinazionali traggono vantaggio dalle risorse genetiche e dalle conoscenze tradizionali dei Paesi in via di sviluppo.

La violazione compiuta in India è stata portata alla luce dall’organizzazione Environment Support Group (Esg) che ha poi presentato all’Nba il caso di biopirateria sostenendo che almeno una decina di varietà di melanzane esistenti nelle regioni del Karnataka e del Tamil Nadu, tra le circa 2.500 presenti nel Paese, sono state utilizzate per mettere a punto questa prima melanzana geneticamente modificata destinata ad essere commercializzata in India. “Monsanto era perfettamente al corrente della legge e l’ha volontariamente ignorata – ha dichiarato Leo Saldanha, direttore dell’organizzazione Esg – Davanti a questo furto è nostro compito proteggere la perdita di biodiversità nazionale da un uso improprio o eccessivo delle coltivazioni transgeniche, ma non dobbiamo dimenticarci di difendere le comunità agricole locali che devono essere consultate e ricevere, se consentono di condividere le proprie conoscenze, i benefici maturati dalla commercializzazione”. “Per questo – ha concluso Saldanha – chiediamo che la Nba e le sue agenzie facciano il possibile per garantire che tali atti di biopirateria diventino un ricordo del passato”.

Una richiesta legittima quella della Environment Support Group, basata sull’India’s Biological Diversity Act del 2002 che vieta l’utilizzo di risorse locali senza l’approvazione della Nba e sulla Convenzione sulla diversità biologica (Cbd) nata nel 1992 per garantire “la conservazione della diversità biologica, l’uso sostenibile delle sue componenti e la giusta ed equa divisione dei benefici dell’utilizzo di queste risorse genetiche attraverso un giusto accesso a tali risorse ed un appropriato trasferimento delle tecnologie necessarie”. La legge dispone inoltre che quando la biodiversità è accessibile per uno sfruttamento a livello commerciale, “questo è considerato legale a patto che i benefici e i proventi siano equamente suddivisi anche con la comunità locale”.

Proprio di questa sottrazione ed inadempienza dovranno ora rispondere la Monsanto e il suo partner indiano Mahyco che con diverse università indiane si erano associate nel 2005 per condurre delle ricerche sullo sviluppo degli organismi geneticamente modificati anche grazie all’appoggio dell’Agenzia Americana di Sviluppo (Usaid). Mahyco ha affermato categoricamente di non essere in violazione delle clausole del Cbd, che la melanzana transgenica fu sviluppata dall’Università di Scienze Agricole Dharwad e che essa si è limitata a fornire il gene della trasformazione. Dal canto suo, l’Università ha dichiarato di avere tutti i permessi necessari.

Una situazione giuridicamente intricata, quindi, che per il momento non smonta l’accusa di biopirateria e mette a segno un nuovo duro colpo per la Monsanto che ora rischia di frenare lo sviluppo delle sue attività in India anche perché la melanzana, molto presente nell’alimentazione quotidiana di tutto il Paese, è anche utilizzata come offerta votiva e nel tempio di Udupi, nel Sud dell’India, dove i fedeli del dio Krishna si sono opposti violentemente alla commercializzazione della melanzana geneticamente modificata. Essi temono soprattutto di suscitare la collera della loro divinità offrendole delle verdure “impure”, meno, a quanto pare, l’idea di essere stati esclusi dalla divisione dei proventi derivanti dalla commercializzazione illegale dei semi delle loro melanzane o il fatto che le nuove melanzane non abbiano lo stesso succulento gusto delle antiche.

Per Slow Food la causa internazionale e la sollevazione degli abitanti potrebbe essere un punto di partenza per porre fine al ladrocinio di piante iniziato nel 1997, anno in cui gli agricoltori avevano fortemente protestato contro il brevetto registrato da un altro gigante americano, la Rice Tec, su di una varietà di riso ribattezzata “kasmati” e clone del basmati. “Essendo una delle nazioni con più agrobiodiversità (conta il 7,8 per cento delle specie animali e vegetali del pianeta), l’India è diventata il bersaglio preferito delle compagnie del biotech come Monsanto e Cargill” ha detto Slow Food. “Queste multinazionali stanno facendo mambassa di piante, le cui caratteristiche uniche sono state selezionate e sviluppate nell’arco di migliaia di anni dai contadini locali. Per questo è importante sapere l’India impermeabile ai rischi della biopirateria e a quelli della contaminazione da componenti transgenici”. Ma non solo. Porre un freno agli ogm potrebbe migliorare anche le condizioni dei piccoli agricoltori indiani “che per inseguire la coltura del cotone geneticamente modificato – attualmente autorizzato in India – hanno ben presto risentito del costo troppo elevato dei semi che sono obbligati a ricomprare ogni anno perché geneticamente programmati per non durare più di un raccolto”.

In passato Vendana Shiva e la sua associazione Navdanya International aveva più volte reso note le responsabilità della Monsanto in centinaia di suicidi tra contadini che attratti dalla vana promessa di rendimenti più elevati erano passati alle colture ogm del cotone e dall’utilizzo di costosi fertilizzanti chiedendo ingenti prestiti che raramente erano riusciti a saldare. Pur di non lasciare il proprio terreno alle banche dal 1995 ad oggi sono 250.000 i lavoratori della terra che si sono suicidati secondo un rapporto del Center for Human Rights and Global Justice (Chrgj). Anche per questo la causa dell’India alla Monsanto può dare un segnale importante per sperare in un altro mondo possibile.

Alessandro Graziadei