È stato presentato ieri a Palermo al Cre.zi.plus, ai Cantieri Culturali alla Zisa, il libro di Giulia Ceccutti Respirare il futuro. La sfida di Neve Shalom Wahat Al-Salaam edito da “in dialogo”; ha conversato con l’Autrice con il geografo Enzo Guarrasi; le letture sono state di Preziosa Salatino.

Il volume propone numerose interviste, raccolte dopo il 7 ottobre, ad ebrei e palestinesi che convivono insieme in un piccolo paese nato più di cinquant’anni fa entro lo Stato di Israele, a metà strada tra Gerusalemme e Tel Aviv. Esso rappresenta davvero un punto di non ritorno. Anche adesso che il baratro della guerra totale si fa reale e vicino, costituisce un segno di speranza, per la condivisione di smarrimento e dolore, ma anche per l’ostinazione di chi crede ancora in un futuro possibile.

Le parole di chi ha scelto di convivere nella Dimora della Pace – questo il termine biblico nella doppia dicitura araba ed ebraica – tracciano percorsi e aprono prospettive concrete. Tessono il racconto di una sfida difficile ma non impossibile.

Il prof. Guarrasi, nel rivolgersi alla giovane autrice, si dice emozionato perché l’interrogativo di stasera è impegnativo: come si costruisce la pace? Come si fa pace? Non è solo astenersi dalla violenza, non è solo una postura passiva, ma si tratta, come esplicita il titolo, che è quasi un ossimoro, di respirare il futuro. Le filosofie e le pratiche orientali ci insegnano che il respiro è consapevolezza del presente (pensiamo al maestro buddista Tich Nath Han), mentre il nostro presente è fonte di angoscia e allora ci tocca immaginare un altro mondo possibile, come si è detto da Porto Alegre in poi nel movimento no global.

Ma come si fa a interrompere la spirale di odio e violenza che coinvolge oggi il mondo intero, e non solo negli scenari di guerra? …Nel pieno di una catastrofe, mentre ci accade qualcosa che non sappiamo affrontare, e in un luogo emblematico – la Palestina, ma altri la chiama Israele – che è duplice, o forse triplice, con Gerusalemme “città degli specchi”.

In una carta geografica muta rimane di solito appena il profilo degli Stati da identificare, patrie uniformi per lingua costumi etnia con confini ben marcati, ma qui c’è una tessera diversa, con due popoli, due culture e tre religioni. Paradosso di una storia che non è iniziata il 7 ottobre, ma forse nel 1948 con la Nakba (la prima Nakba, se questa dei nostri giorni è la seconda) o forse nel 1917 con la dichiarazione di Balfour, o ancora prima con gli iniziali esodi di sionisti, precedenti l’affare Dreyfus.  Allora, forse, ci sono due storie, inconciliabili tra loro: una vittoriosa e l’altra catastrofica, segnate sempre da un’asimmetria incolmabile, per cui non di guerra dobbiamo parlare, ma di sterminio.

Eppure dal 1972 esiste un piccolo villaggio di 100 famiglie, con 359 residenti e circa 100 bambini, con altri 200 nuclei in lista di attesa per essere inclusi, che attendono si liberi una qualche casetta e il benestare del comitato di selezione.  Seme dal potenziale enorme.

Doppio nome, doppia lingua, doppia popolazione, con attenzione a mantenere sempre equilibrato il numero degli appartenenti ai due popoli, per garantire equità nella rappresentanza. Città di Fondazione, come quelle degli antichi miti mediterranei: fondazione di un’era di condivisione e solidarietà, stavolta.

L’autrice Giulia Ceccutti sottolinea come l’impegno sia quello di crescere insieme ed educare i propri figli alla nonviolenza. E in effetti l’attenzione pedagogica è davvero significativa: mentre il sistema scolastico ufficiale prevede scuole diverse per palestinesi ed ebrei, qui invece c’è una scuola bilingue e binazionale, un ambiente multireligioso e multiculturale. I bimbi, senza che nessun docente traduca, imparano spontaneamente entrambi gli idiomi semplicemente comunicando fra loro. La scuola primaria è aperta anche ai piccoli dei villaggi vicini, sono circa l’80%.

Il villaggio lavora su un progetto educativo a lungo termine: oltre alle classi dell’obbligo, c’è una Scuola di Pace per adulti, che ha costituito un modello per tante altre iniziative pedagogiche e ha formato educatori che hanno diffuso buone pratiche in tutta la nazione e all’estero. I docenti, inoltre, sono stati chiamati a tenere dei corsi anche nelle Università di Israele.

Ceccutti ricorda come Neve Shalom Walhat al Salaam sia chiamata “il dinosauro della pace”, per la sua storia relativamente lunga (53 anni) a fronte di quella della Stato di Israele; eppure è una realtà giovane e resiste.

Fu fondata da un frate domenicano, Bruno Hussar, ebreo convertito al cristianesimo e vissuto a lungo in Egitto a contatto col mondo musulmano, figura incarnata dunque della multiculturalità e della interreligiosità.  Dopo la guerra dei sei giorni del ’67, chiese ai superiori di poter fare qualcosa di concreto e ottenne di prendere in affitto un terreno del monastero di Latrun. Di lì tutto ebbe inizio.

Guarrasi torna sulla domanda che gli sta a cuore come un rovello: come si fa la pace dopo il 7 ottobre? Come si colma il divario dei vissuti contrapposti? Come si affronta il percorso di dialogo a viso aperto? Come si condivide il dolore di entrambi i popoli, anche quando non si riesce a tenerlo insieme?

Ceccutti ribadisce che è una questione di formazione e di spiritualità non confessionale. Esiste uno spazio del silenzio, uno spazio laico triangolare, dove tutti possono sedere a meditare, tutti: ebrei musulmani cristiani atei. Quando un ragazzo non credente, di fronte ai tre lati ben definiti, dichiarò di non sapere dove sedersi, allora fu ideata una cupola circolare, priva di simboli religiosi, protezione di un luogo senza angoli, da allora molto caro ai giovani.

Un altro percorso è quello politico: tutte le cariche nei comitati sono elettive e doppie, ebraiche e palestinesi, e nelle assemblee le due rappresentanze sono equinumerose; il sindaco è rinnovato in alternanza, di etnia e di genere, ogni due anni. Le decisioni maturano in assemblea, secondo una democrazia dal basso che richiede molto impegno volontario.

Questioni come l’obiezione fiscale o l’obiezione di coscienza attengono alla coscienza individuale. Nel libro si narra di un ragazzo ebreo che decise di prestare il servizio militare, ma la festa tradizionale che ne precedeva l’avvio si volse con i suoi migliori amici, palestinesi, e si risolse in un commiato molto triste. Del resto, già sul pullman che doveva portarlo in caserma, il giovane apparve pentito e avvilito; le autorità allora lo trasferirono in un ufficio dove non avrebbe dovuto imbracciare le armi. Sappiamo, però, che gli obiettori (Mesarvot) finiscono in galera… E chi invece decide di servire lo Stato (ebrei e palestinesi del villaggio sono entrambi cittadini israeliani) non indossa mai la divisa nel villaggio.

Guarrasi si interroga ancora: come essere leali a uno Stato genocida, nella consapevolezza dell’asimmetria dei rapporti di forza, nella consapevolezza dei 100 anni di occupazione? Le persone che vogliono continuare a credere nella pace resisteranno?

Non smettiamo di sperare, conclude Ceccutti – e noi con lei.