In una serata di fine ottobre, mentre il mondo procedeva al suo ritmo consueto, tra le mura accoglienti della Libreria Colapesce si è radunato un crocevia di coscienze. Non un semplice incontro, ma una congiunzione astrale di voci, provenienti da diverse geografie della cultura, dell’attivismo e della resistenza. Unite dal filo rosso di una parola troppo spesso confinata nei regni dell’astratto: Utopia.

L’occasione è stata la presentazione del volume Occupare l’utopia: per la liberazione e la costituente del comune, curato da Toni Casano – presente e partecipe, accorso da Palermo con il desiderio ardente di tessere una rete solidale con le realtà associative e cittadine di Messina – e Antonio Minaldi ed edito da Multimage.

Ma il testo è stato più un pretesto, un punto di partenza per un viaggio collettivo molto più ambizioso. Non si discuteva di un’evasione dalla realtà, bensì di un’immersione più profonda nelle sue pieghe, per scovare il seme di un domani già presente.

L’utopia che è emersa dal dibattito non è il sogno dorato e irraggiungibile di un’isola che non c’è. È, piuttosto, un “linguaggio concreto”. Un nuovo vocabolario delle possibilità, capace di tessere una tela di connessione tra le mille esperienze di lotta che punteggiano il presente – per i diritti, per l’ambiente, per il lavoro, per la dignità – unendole sotto la bandiera di un unico, grandioso progetto di emancipazione. È la risposta organica a un sistema onnivoro che, su tutti i fronti, spezza l’impulso ideale e costringe ogni anelito alle logiche sterili del profitto.

Con una chiarezza che ha il sapore della rivelazione, il dialogo ha illuminato il volto dell’avversario comune. Non un’entità politica singola, ma la logica impersonale e totalizzante del Mercato, che riduce l’umano a merce, relazioni a transazioni, e comunità a consumatori. In questa analisi, la battaglia per un futuro diverso si rivela nella sua essenza più profonda: intersezionale. Non può essere altrimenti, perché l’alienazione tocca ogni aspetto dell’esistere.

Il cuore pulsante della serata, tuttavia, non è stata la critica, per quanto lucida e condivisa. È stato il desiderio, un ardore palpabile, di ricostruire. Ricostruire un’umanità che ritrovi il proprio centro nella comunità, in cui l’individuo non sia più servo di sistemi di dominio, ma protagonista consapevole della propria storia. L’obiettivo finale non è la conquista di un potere, ma l’occupazione di uno spazio – fisico, mentale, relazionale – in cui ritrovare la simbiosi con l’altro e con la bellezza che ci circonda, troppo spesso oscurata dalla frenesia del possesso.

“Occupare l’utopia”, allora, significa smetterla di attenderla in un altrove mitico e cominciare a edificarla qui, nell’adesso, con le mani e con il pensiero. Significa riconoscere che il “Comune”, l’insieme dei beni, materiali e immateriali, che ci appartengono e di cui siamo custodi, non è un retaggio del passato, ma il fondamento di un futuro possibile.

Quella alla Libreria Colapesce non è stata una lezione, ma un atto di condivisione di un sentire profondo. È stato il suono di un’umanità che, pur nelle sue ferite, non ha smesso di cercare la stella polare di un sogno collettivo. Un sogno che non chiede di essere sognato, ma occupato, abitato, e reso, passo dopo passo, realtà.