Il narcisismo è un male silenzioso e, in molti casi, incurabile. Con questa intervista – la prima di una serie – iniziamo un percorso di testimonianze per mostrare cosa significa davvero vivere accanto a un narcisista. Quella che segue è la testimonianza di “Antonio” (nome di fantasia scelto per tutelare la privacy dell’intervistato), un fumettista che ha vissuto sulla propria pelle una relazione segnata dal narcisismo covert e dalla violenza psicologica e fisica. La sua voce rompe un silenzio ancora troppo diffuso: quello degli uomini che subiscono abusi e che spesso non vengono creduti, o peggio, ridicolizzati.
Antonio, ci racconti come hai conosciuto la tua partner e quale fu la prima impressione che ti lasciò?
L’ho incontrata a una mostra di fumetti. Si avvicinò con curiosità ai miei lavori e mi disse che le trasmettevano qualcosa di speciale. Il suo sguardo era magnetico e persuasivo, come se fossi davvero unico. Mi fece sentire visto, riconosciuto. All’inizio era come vivere dentro una favola: attenzioni costanti, dolcezza, ammirazione. Mi sembrava impossibile che qualcuno potesse apprezzarmi così intensamente.
Possiamo dire che i primi tempi furono idilliaci?
Sì, assolutamente. Mi sosteneva in tutto, mi faceva sentire come se ogni mio sogno fosse possibile. Ogni parola era un incoraggiamento, ogni sguardo una conferma, ogni gesto una carezza che sembrava dire: “Io credo in te”. Quando parlava di me, usava parole che nessuno aveva mai usato. Mi sembrava di avere finalmente qualcuno che mi vedeva davvero, non solo come fumettista, ma come persona. Ero convinto di aver trovato la mia metà, la mia alleata, la mia musa. Vivevo come se fossi diventato il protagonista di una storia d’amore perfetta, e temevo di svegliarmi e scoprire che era solo un sogno.
Quando hai iniziato a percepire un cambiamento?
Con il tempo, quella che all’inizio sembrava ammirazione sincera ha cominciato a mutare, quasi impercettibilmente. Le sue lodi si sono fatte più rare, fino a sparire del tutto, sostituite da critiche sempre più pungenti. Ogni mio disegno veniva smontato pezzo per pezzo, definito banale, infantile, inutile. Non era più il mio talento a farla brillare di entusiasmo, ma i miei errori a nutrire le sue parole. Faceva battute velenose in pubblico, mi metteva in imbarazzo davanti agli altri, come se provasse gusto a sminuirmi. La sua presenza, da sostegno, è diventata una gabbia. Mi sentivo sempre sotto esame, sempre sbagliato, come se la persona che amavo fosse diventata il mio giudice.
Cosa ti feriva di più nei suoi comportamenti quotidiani?
I silenzi punitivi erano la tortura più sottile. Restava giorni senza parlarmi, mi passava accanto come fossi un fantasma. Era una violenza invisibile, ma feroce, perché non lasciava lividi sul corpo ma li lasciava nell’anima. Ti senti colpevole senza sapere di cosa, ti scavi dentro cercando errori immaginari. È un annientamento lento. Arrivi a dubitare della tua identità, a chiederti se davvero vali qualcosa, se esisti ancora agli occhi di qualcuno.
C’è stato anche abuso fisico?
Sì. All’inizio sembravano piccoli gesti di rabbia: uno spintone, un graffio. Poi sono arrivati gli schiaffi, i lanci di oggetti. Una sera strappò alcuni miei disegni: per me fu come ricevere un pugno nello stomaco. Quelle tavole rappresentavano anni di lavoro, sogni, pezzi di me. In quel momento ho sentito la mia persona frantumarsi.
Quali strategie usava per colpevolizzarti o manipolarti?
La sua arma più potente era il ribaltamento: qualsiasi sua reazione violenta diventava improvvisamente colpa mia. Mi diceva frasi come: “Sei tu che mi provochi” o “Sei tu che mi costringi a comportarmi così”. Non solo non si scusava mai, ma riusciva a farmi sentire responsabile del suo dolore, della sua rabbia, persino della sua cattiveria. Mi convinceva che senza di lei non avrei combinato nulla, che nessuno mi avrebbe mai amato davvero, che ero destinato a fallire. Era come un veleno che lentamente entrava nella mia mente, fino a far parte dei miei pensieri. Arrivi a credere alle sue parole, a sentire la sua voce dentro la tua.
Hai mai pensato di allontanarti definitivamente?
Sì, più volte. Ma ogni volta che prendevo coraggio, lei si trasformava: tornava dolce, premurosa, quasi pentita. Mi diceva che non poteva vivere senza di me. E io ci cascavo, perché dentro di me speravo ancora nella donna che avevo conosciuto all’inizio. È questo il meccanismo più crudele del narcisismo: ti lega proprio con le briciole di quello che hai perso.
Come hai capito che la tua ex compagna è una narcisista covert?
L’ho capito solo quando avevo raggiunto il fondo. All’inizio non conoscevo nemmeno il termine “narcisismo covert”. Per me era solo la donna che amavo, che a volte mi feriva, ma che credevo di poter aiutare. Poi ho iniziato a leggere, a informarmi, a confrontarmi con altre storie, e tutto ha iniziato a combaciare: le fasi di idealizzazione, svalutazione e scarto, le manipolazioni sottili, il ribaltamento delle colpe, i silenzi punitivi. Era come leggere la cronaca della mia vita.
Me ne sono reso conto davvero quando ho capito che non c’era logica nei suoi comportamenti, se non quella di distruggermi per sentirsi più forte. Non si trattava di litigi normali, né di un carattere difficile: era un meccanismo preciso, freddo, costante. Lì ho smesso di pensare che fosse un problema di coppia e ho capito che era un abuso.
Hai provato a chiedere aiuto a qualcuno?
Ho provato a denunciare. Ma raccontare di essere un uomo vittima di violenza da parte di una donna è stato come scontrarmi contro un muro. Ho visto smorfie di incredulità, sguardi di scherno. È stato umiliante: non solo subivo, ma venivo deriso. È un doppio dolore, perché la società non è pronta ad ascoltare storie come la mia.
Cosa ti ha fatto soffrire di più in tutta questa esperienza?
Quello che mi ha fatto più male è stata l’invisibilità. Sentirmi trasparente, come se il mio dolore non contasse, come se non esistessi. La solitudine più grande non è essere lasciato, ma non essere creduto. Quando cercavo aiuto, quando raccontavo la mia storia, vedevo negli occhi degli altri incredulità, ironia, fastidio. Questa invisibilità ti logora più delle botte, perché ti convince che non vali abbastanza nemmeno per essere difeso.
Guardandoti indietro, cosa pensi ti abbia trattenuto più a lungo in quella relazione?
La speranza è stata la mia catena più resistente. La speranza che la persona che mi aveva fatto sentire unico all’inizio tornasse. Mi aggrappavo al ricordo dei momenti belli, a quelle prime carezze, a quelle parole che sembravano così vere. Mi dicevo che era una fase, che l’avrei aiutata, che avrebbe capito. Ma quella donna non esisteva più, e forse non era mai esistita davvero. Forse era solo un volto costruito per incantarmi. Rendermene conto è stato come perdere qualcuno due volte: prima lei, poi l’illusione di lei.
Oggi, dopo tutto questo, cosa ti senti di dire ad altri uomini che potrebbero vivere situazioni simili?
Di non vergognarsi. Di non pensare che il dolore valga meno solo perché sei uomo. La violenza non ha genere. Bisogna parlarne, denunciare, cercare aiuto, anche se sembra impossibile. Non è debolezza, è coraggio.










