Nel numero 1/2025 della rivista Studi Bresciani è apparso un articolo di Stefano Levi Della Torre sulle mutazioni politiche e culturali di Israele, alla luce delle recenti vicende. L’autore è un ebreo italiano, architetto già docente al Politecnico di Milano, che da anni riflette e scrive autorevolmente su temi dell’ebraismo.
L’articolo inizia analizzando la situazione a Gaza, come si presentava lo scorso marzo, con la rottura unilaterale da parte di Israele della tregua e la ripresa dei bombardamenti. Per l’autore Netanyahu e il suo governo non vogliono liberare gli ostaggi o liberarsi di Hamas, obiettivo quest’ultimo peraltro assai difficile, ma vogliono liberarsi dei palestinesi. Hanno quindi cinicamente utilizzato il terribile pogrom del 7 ottobre, e il conseguente trauma collettivo, per trasformare la necessaria risposta contro Hamas in una guerra contro i palestinesi, finalizzata alla loro eliminazione.
Viene poi analizzato il mutamento della visione che gli ebrei hanno del mondo, e di sé stessi, alla luce della nascita d’Israele. Per l’autore “l’ebraismo è una costellazione di culture che per più di duemila anni ha elaborato una visione del mondo dalla sponda dei vinti e della minoranza”, i suoi miti fondanti, Egitto, Sinai, cattività babilonese, sono nati nella dispersione ed anche le tre feste principali della tradizione, Pesac, Shavuot e Sukkoth, celebrano spostamenti e non l’insediamento in una propria terra, come invece prevede il sionismo. La Dichiarazione di indipendenza del 1948, che si apre con le parole “in terra d’Israele è nato il popolo ebraico”, contraddice la Bibbia, ove si dice invece che il popolo ebraico è nato fuori da Israele, che è “terra promessa” ad un popolo nato nel deserto. In Israele dunque non è nato il popolo ebraico, bensì quello israeliano, che dopo cinque generazioni diviene nazione autoctona, legittimata per questo ad esistere.
Il sionismo è una profonda novità nella storia ebraica. Scrive l’autore: “Dopo più di due millenni in cui gli ebrei hanno elaborato visioni del mondo dalla sponda dei perdenti, arrivati all’estremo limite della catastrofe, alla Shoa, nel loro risorgere nel dopoguerra sono passati nel loro complesso in tutto l’occidente, dalla sponda dei vinti a quella dei vincitori. Sia politicamente con la nascita dello Stato di Israele, sia civilmente e socialmente”, segnando una profonda discontinuità. “La figura in cui il mondo ebraico, laico o religioso, trova una continuità nella sua storia è quella della vittima”, ma con la nascita di Israele, soprattutto dall’inizio degli anni ’60, si è formato nel mondo ebraico un potente ossimoro: l’essere vittima vincendo. “Ma la vittima che vince, e tuttavia conserva il carisma della vittima, non è più solo vittima ma anche vittimista” Ciò determina una transizione verso destra, perché la vittima aspira alla liberazione e all’emancipazione propria e magari universale, “il vittimista elabora invece la giustificazione di un proprio potere acquisito: a giustificare non la responsabilità del proprio potere, ma l’arbitrio del potere, come se il proprio arbitrio fosse la doverosa ricompensa di chi rappresenta le vittime”.
Con l’occupazione dei territori palestinesi dopo la guerra del ’67, “Israele incorporava all’interno del suo stesso sistema una malattia, inscritta nella sua stessa origine: la questione palestinese”. La citazione di un intervento dell’aprile ’68 sul quotidiano israeliano Yediot Arhonot, dell’illustre esponente israeliano dell’ebraismo Yeshayahu Leibowitz mette in luce le contraddizioni e i pericoli insiti in tale politica: “Estendere l’ambito del nostro dominio politico a questi arabi, significa la liquidazione dello Stato di Israele [.] la degenerazione dell’uomo ebreo e dell’uomo arabo [..]. la corruzione tipica di ogni regime coloniale prenderà piede anche nello Stato di Israele. Il regime dovrà dedicarsi da un lato alla repressione di un movimento di rivolta arabo, dall’altro all’acquisto di quisling arabi. C’è da temere che anche l’esercito israeliano degeneri a causa della sua trasformazione in esercito di occupazione, e che, una volta fatti governatori militari, i suoi ufficiali diventino tali e quali ai loro colleghi di altre nazionalità.” Leibowitz prevedeva anche la degenerazione “messianica” del nazionalismo in Israele: “l’idea che una certa terra o un certo luogo abbiano uno “santità” intrinseca è tipicamente idolatrica”. Per Levi l’occupazione dei territori costituisce così una sorta di “malattia auto-immune, un eccesso difensivo diventato una patologia cronica che ha indotto processi degenerativi nel suo stesso corpo”. E continua: “non è sano per un popolo vivere in contiguità con un altro popolo che esso espropria, discrimina e subordina; non è sano per uno stato di diritto convivere con uno stato di polizia coloniale imposto ad altri. Tanto è vero che lo stato di diritto ha cominciato a vacillare anche in Israele: la lunga permanenza della destra al governo è arrivata a sancire la mutazione della democrazia di Israele in etnocrazia, come Stato esclusivo degli ebrei con la legge fondamentale del 2018 e infine a minare l’autonomia della magistratura con una proposta di riforma che la subordinava all’esecutivo”.
L’occupazione ha indotto una degenerazione anche nei palestinesi che “privati di autonomia economica e politica sono stati sostenuti da sovvenzioni internazionali, che hanno esposto alla corruzione i loro gruppi dirigenti”. Il pogrom del 7 ottobre è stato estremamente traumatico, per dimensione e ferocia, ma anche per il fallimento inatteso degli apparati di sicurezza; il governo ha così reagito in modo spropositato anche per coprire i propri fallimenti e ricostituire una deterrenza brutalmente umiliata. L’aggressione di Hamas non è nata però dal nulla, ma rispondeva all’oppressione dei palestinesi, assediati a Gaza ed espropriati della terra dai coloni in Cisgiordania; irrompeva inoltre sui patti di Abramo, che aggiravano i palestinesi, ed offriva ad Hamas l’occasione di proporsi come titolare della causa palestinese. Pur avendo il diritto/dovere di reagire, Israele, presentandosi come pura vittima senza responsabilità, ha rigettato come ostile o antisemita ogni appello internazionale a limitare almeno l’attacco a civili e ad agenzie internazionali e con la strage incondizionata ha visto erodersi il consenso dell’opinione mondiale. Tutto ciò aumenta per Israele lo stato di pericolo e di isolamento, lo allontana dalle democrazie, coinvolgendo su questa china tutto il mondo ebraico.
La destra nazionalista sacrifica il prestigio della memoria ebraica usando il pogrom per “risolvere una volta per tutte la questione palestinese col massacro e la pulizia etnica”, mentre Hamas “che non poteva non prevedere una rivalsa estremamente violenta al suo assalto, ha offerto in sacrifico la sua stessa gente”. Così “l’unica democrazia del Vicino Oriente” muta in democratura, minando i rapporti storici con le democrazie per allearsi con le democrature sovraniste. In tale contesto Netanyahu offre credenziali filosemite alle forze con ascendenze antisemite, in cambio della loro avversione alla sinistra pro-pal, stravolgendo la tradizione del sionismo d’ispirazione laica e democratica che ha fondato Israele e accrescendo ancora le spaccature in patria e nella diaspora. Accusare di antisemitismo chiunque critichi Israele “è pretendere il privilegio di essere esentati dalle critiche perché Ebrei”. Antisemitismo e filosemitismo in realtà sono “due facce della stessa sindrome radicata nella storia: il complesso degli ebrei” e Levi prosegue: “Non è questa la nostra terra promessa. E’ piuttosto quella di essere voci cariche di storia e di cose da dire nella conversazione umana”. Tra Hamas e destra israeliana esiste un “antagonismo collusivo”, perché entrambi vogliono “escludere la via del compromesso”, l’unica invece possibile per la pace.










