di Perla Allegri*
8 marzo: niente fiori o mimose, ma un bel reato di femminicidio nuovo di zecca.
Mentre si celebra la Giornata internazionale della donna, il governo decide di farci un regalo speciale: il reato autonomo di femminicidio.
Perché punire un omicidio con l’ergastolo non bastava, serviva un’etichetta nuova -possibilmente simbolica- e poco importa se non risolve il problema. Dimentichiamo prevenzione, educazione e interventi strutturali: l’importante è far vedere che si fa qualcosa, anche se non serve. Perché investire su sicurezza reale costa, ma scrivere nuove leggi fa sempre fare una bella figura.
A guardare il nuovo disegno di legge che introduce il reato autonomo di femminicidio, da un punto di vista tecnico, la prima cosa che salta agli occhi è la creazione di una “gerarchia delle vittime”, con evidenti profili di incostituzionalità. Riconoscere una protezione speciale alle donne, ma escludere altre categorie che subiscono violenza per motivi di odio e discriminazione (penso alle persone omosessuali, transessuali o disabili) è sbagliato. Se si vuole riconoscere la matrice di odio e discriminazione dietro questi omicidi, allora sarebbe più coerente prevedere un’aggravante specifica piuttosto che un nuovo reato autonomo.
La violenza di genere è un fenomeno gravissimo, ma non può essere affrontata con un approccio esclusivo che lascia fuori altre forme di discriminazione sistemica.
Un altro aspetto che da sempre mi trova contraria a questo trionfalismo fuori luogo riguarda la completa inefficacia dell’inasprimento delle pene. L’idea che l’ergastolo possa funzionare da deterrente per chi commette femminicidi è priva di fondamento giuridico, psicologico e sociologico. Su certi tipi di crimini la deterrenza non ha effetti perché la scelta di mettere in atto l’azione criminale non è fatta sulla base di un calcolo razionale delle conseguenze penali e non.
Se l’inasprimento delle pene avesse funzionato avremmo già dovuto racconglierne i frutti col Codice Rosso e con la Legge Roccella, ma così non è stato.
La vera prevenzione non si fa aumentando le pene, ma con politiche educative e sociali che intervengano sulle cause della violenza sin dall’infanzia, promuovendo una cultura del rispetto e dell’uguaglianza, spostando gli investimenti dal penale verso interventi educativi e strumenti di autonomia economica.
Senza queste misure, la legge si riduce come sempre a un’operazione simbolica che non risolve il problema e che, mi permetto, viene accolta con un’euforia del tutto ingiustificata. **
Nell’ambito italiano, l’emergere della consapevolezza riguardo alla violenza perpetrata dagli uomini nei confronti delle donne, specialmente all’interno delle relazioni familiari o nelle connessioni intime, ha dato origine a una vasta campagna fondata sui concetti di “vulnerabilità, debolezza e fragilità femminile”.
Tuttavia, come osserva Pitch, vi sono donne e movimenti femminili che hanno adottato questa prospettiva securitaria, di femminismo punitivo che, se da un lato aumenta la visibilità della questione, dall’altro si presta a un paradosso secondo cui “dovremmo imprigionare tutti gli uomini, oppure mettere una poliziotta in ogni casa…” (2022: 82). La rappresentazione sociale del problema delle violenze sulle donne ha acquisito negli anni (Bandelli, Porcelli, 2016) il carattere di panico morale: ondate emotive nelle quali “un episodio o un gruppo di persone viene definito come minaccia per i valori di una società; i mass media ne presentano la natura in modo stereotipico, commentatori, politici e altre autorità erigono barricate morali e si pronunciano in diagnosi e rimedi finché l’episodio scompare o ritorna ad occupare la posizione precedentemente ricoperta nelle preoccupazioni collettive” [Cohen 1972] (Maneri, 2001: 14).
L’accentuazione data alla promozione di queste misure di protezione per le donne è rappresentativo di un sensazionalismo mediatico che risuona nelle reazioni delle istituzioni e finisce per tradursi in politiche penali iper punitive, figlie di una filosofia che favorisce il potere pubblico a spese dell’autodeterminazione delle donne (Virgilio, 2014). La richiesta di maggior controllo – anche elettronico – così come di
nuovi reati e pene più severe, perpetua l’illusione molto diffusa che “la giustizia penale sia la migliore, quando non l’unica, soluzione per ogni tipo di problema” (Pitch, 2022: 80). Si confida nel potenziale simbolico del penale, utilizzato come risorsa soprattutto su tematiche come quella della violenza maschile contro le donne. Pertanto le strategie victim oriented rischiano di venire cooptate da politiche più tradizionalmente punitive, impegnate più nell’ottenere consenso anziché concentrarsi sul potenziale di sostegno ed emancipazione. ***
nuovi reati e pene più severe, perpetua l’illusione molto diffusa che “la giustizia penale sia la migliore, quando non l’unica, soluzione per ogni tipo di problema” (Pitch, 2022: 80). Si confida nel potenziale simbolico del penale, utilizzato come risorsa soprattutto su tematiche come quella della violenza maschile contro le donne. Pertanto le strategie victim oriented rischiano di venire cooptate da politiche più tradizionalmente punitive, impegnate più nell’ottenere consenso anziché concentrarsi sul potenziale di sostegno ed emancipazione. ***
* Perla Allegri è assegnista di ricerca nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino, dove insegna Philosophy of Law. Insegna Sociologia del diritto all’Università del Piemonte Orientale ed è membro dell’Osservatorio nazionale di Antigone sulle condizioni di detenzione.
** Commento al Disegno di Legge sul Femminicidio proposto dal Governo Meloni pubblicato da Perla Allegri sul suo profilo Facebook e ripubblicato da Pressenza previa autorizzazione dell’autrice.
*** Allegri Perla. Prigioni elettroniche. Dal Mass Imprisonment all’E-prisonment: evoluzioni del controllo elettronico nella penalità, 2024. Pacini Editore: Pisa. Brano pubblicato con autorizzazione dell’autrice










