Sarà presentato sabato 27 dicembre alle ore 11 presso il No Mafia Memorial di Palermo il libro collettaneo “Il delitto di via Sampolo. Ricordando Emanuela Sansone e Giuseppa Di Sano” edito da Navarra. Riportiamo di seguito due ampi stralci in merito
L’amore e il coraggio. Donne contro la mafia, Daniela Dioguardi
Emanuela Sansone, uccisa il 27 dicembre del 1896 a 18 anni, e prima di lei Anna Nocera, uccisa nel 1878 a 17 anni, testimoniano la falsità della narrazione in base a cui in tempi passati la mafia, avendo un codice d’onore, sarebbe stata rispettosa di donne e bambini. Risulta inoltre evidente che non è vero, neppure per il passato, che i mafiosi si uccidano tra loro. Anna e Emanuela, oltre ad essere due giovanissime donne, ancora minorenni, non fanno parte di famiglie mafiose ma per loro disgrazia incrociano la mafia e questo decreta la loro fine.
Della triste vicenda di Anna Nocera ci racconta Anna Puglisi. La seconda, Emanuela Sansone, descritta sul Giornale di Sicilia, che riporta la notizia del suo omicidio, come una giovane avvenente, si trova in una condizione economica migliore, non deve prestare servizio in casa altrui come Anna, ma aiuta i genitori nella merceria-bettola di via Sampolo. Le poche notizie che abbiamo su di lei le ricaviamo dalle Relazioni al Ministro degli interni del questore Ermanno Sangiorgi, redatte tra la fine dell’800 e i primi del ‘900 e riportate nel libro di Umberto Santino La mafia dimenticata.
Rileggendo Sangiorgi
Dal Rapporto viene fuori l’immagine di una ragazza sveglia e attenta, si accorge, infatti, di fatti insoliti e preoccupanti che avvengono all’interno del negozio, di buon carattere, gioca allegramente con i due fratelli più piccoli, e con una storia d’amore, almeno così si chiacchiera, con il comandante della stazione dei carabinieri del Giardino Inglese che frequentemente si recano per vari acquisti nella bettola. Questa frequentazione e il fatto che anche finanzieri e guardie di città siano clienti di lunga data, è motivo di grande diffidenza per i malavitosi della zona. La madre, Giuseppa Di Sano, è una donna energica che porta avanti con intelligenza gli affari.
Purtroppo vicino alla bettola c’è un’officina in cui i Gambino, padre e figli, fabbricano banconote false e di fronte un fondo dove si riuniscono i mafiosi della zona. Spesso Giuseppa è costretta a rifiutare pagamenti di avventori, mandati dai Gambino, che vorrebbero o utilizzare per gli acquisti denaro falso o perfino averlo scambiato e ne nascono controversie. Sembrerebbe quasi che la mafia pretenda dalla famiglia Sansone, che cerca in tutti i modi di opporsi, una sorta di pizzo. Un giorno le forze dell’ordine in seguito ad una soffiata chiudono la fabbrica dove si falsifica il denaro e arrestano i Gambino.
Per la malavita della zona è la conferma dei loro sospetti, anche perché il torchio usato per la coniazione delle monete false, era stato impiantato, forse inconsapevolmente rispetto ai fini illeciti, dal cognato della donna e quindi la mafia si convince erroneamente che la Di Sano, saputa per tal mezzo la cosa, ne avesse fatto confidenziale rivelazione ai Reali Carabinieri della Stazione Giardino Inglese, e decide una punizione esemplare.
Una sera, da un foro praticato nel muro di confine del fondo proprio di fronte al negozio, parte una raffica di colpi che feriscono seriamente Giuseppa e uccidono la figlia Emanuela, accorsa per aiutare la madre. Giuseppa, ripresasi dopo mesi dalla gravissima ferita riportata, non si rassegna e racconta per filo e per segno al questore Ermanno Sangiorgi tutto quello che è avvenuto nei mesi precedenti e nello stesso giorno della sparatoria: le pesanti discussioni per le monete false, l’ansia, l’inquietudine provocate in lei dalle mezze parole di donne del quartiere, le minacce più o meno velate ricevute da parte di malavitosi, gli sguardi biechi di alcuni passanti, i movimenti strani, anomali, nei pressi della bettola e il comportamento sospetto nello stesso giorno dell’omicidio di alcuni clienti, tra cui Vincenzo D’Alba che sarà condannato per l’omicidio e Giuseppe Buscemi. Racconta anche della figlia che, accortasi di tutto, temeva soprattutto per l’incolumità del padre. Non si limita a raccontare fatti, fa anche nomi e cognomi.
Lo stereotipo dell’omertà
La sua attiva collaborazione sgombra il campo dallo stereotipo sulla omertà dei siciliani, alimentato da sempre dal potere politico a giustificazione dell’invincibilità della mafia. Sempre nella Relazione del questore Sangiorgi, leggiamo: «…è ben raro il caso in cui i testimoni fiscali si lascino indurre a palesare la verità, tutta quanta la verità, nell’interesse della punitiva giustizia. E ne hanno ben donde, perché di contro a quella compagine di scellerati basta un atto, un detto, un sospetto per passare dalla vita alla morte. Delitti… che quasi sempre rimangono impuniti nel mistero…».
E a proposito della reticenza femminile, riscontrata in alcune testimonianze: «…si spiega benissimo col timore che ad esse incute la mafia, alla vendetta della quale, dicendo la verità, non sfuggirebbero certamente…». «Le lettere minatorie… sono all’ordine del giorno e raggiungono pienamente il loro scopo, giacché le minacce sono prontamente attuate… Ne informano i continui vandalismi di tagli d’alberi, uccisioni di bestie, abigeati e altri delitti…».
Chi decideva di collaborare con le forze dell’ordine per reagire al torto subito e per desiderio di giustizia, lo faceva sapendo di essere esposto ad atti persecutori di qualsiasi tipo, nel migliore dei casi problemi e difficoltà in più nella gestione della vita quotidiana, nel peggiore a rischio della vita, propria o dei propri familiari. Ne risentono, infatti, immediatamente gli affari della bettola che perde parte consistente della clientela, come è avvenuto in tempi recenti a Michela Buscemi, anche lei collaboratrice di giustizia, costretta a lasciare un bar che gestiva insieme al marito.
Già invisa alla mafia e immiserita, Giuseppa continuerà a ricevere pesanti minacce, ma non tornerà indietro. Sarà nuovamente praticato un foro nel fondo di fronte alla sua casa-negozio, come già era avvenuto in occasione del primo attentato in cui aveva perso la figlia. Si legge sempre nel Rapporto di Sangiorgi: «Come appare evidente trattasi di un novello atto della criminosa associazione che nella Di Sano Sansone continua a vedere una minaccia, che non riuscendo a debellare col così detto boicottaggio, contro di essa suscitato e pel quale, com’ebbi già a riferire con precedente rapporto, si è quasi immiserita, tenta di sbarazzarsene, costringendola ad abbandonare quelle contrade ed anche uccidendola se ancora vorrà resistere.» Il sangue freddo dimostrato dalla Di Sano sorprende ancora di più perché si tratta di una donna tra l’altro non affiancata, il Rapporto del questore almeno non lo menziona, dal marito, padre della stessa povera ragazza. Sarebbe stata quindi sola a collaborare.
La scomparsa di Anna Nocera e le donne che parlano, Anna Puglisi
Abitualmente Emanuela Sansone viene indicata come la prima giovane donna uccisa dalla mafia, e la madre, Giuseppa Di Sano, come la prima donna a denunciare, ma prima di Emanuela c’era stata un’altra vittima, Anna Nocera, e un’altra madre che aveva chiesto giustizia, Vincenza Cuticchia.
Anna e la madre
Quasi bambina, a servizio dagli Amoroso, una famiglia palermitana della zona di Porta Montalto, Anna viene sedotta da Leonardo Amoroso che le promette di sposarla. Dal 10 marzo 1878 però non si hanno più notizie di lei. Il padre, che dopo aver scoperto che la figlia era incinta l’aveva bastonata, sospetta che sia stata uccisa, va a chiedere notizie agli Amoroso e viene ingiuriato e cacciato via.
Il padre muore e la madre non si tira indietro, va a deporre in tribunale nel processo, svoltosi nel 1883, ai fratelli Amoroso e loro affiliati, accusati di far parte di un’associazione di malfattori e di omicidi. Vincenza Cuticchia, non si limita a testimoniare, ma si scaglia contro gli imputati, specialmente contro Leonardo: «Scellerati, infami, vi succhiaste il sangue di mia figlia».
Quando le chiedono perché non li ha denunciati subito quando aveva scoperto che la figlia era incinta, e dopo che Leonardo Amoroso aveva minacciato suo marito, risponde: «Ci scantavamo, perché erano tutti maccabei». Forse voleva dire violenti, ma pare di sentire Felicia Impastato con le sue espressioni intraducibili, come «vi faccio passare il mare a cavallo», detto a un mafioso che aveva sentito minacciare di morte il figlio.
Nel processo agli Amoroso, prima di lei aveva testimoniato Paola La Bua, madre di un altro assassinato, che dice, anche lei: «Ci scantavamo a parlare».
Per Anna Nocera un avvocato della difesa mette in dubbio che la ragazza sia morta o, in alternativa, non esclude che si sia suicidata. Un altro avvocato dice: «povera ragazza, vittima dell’amore», mentre il presidente della Corte la definisce una «Francesca da Rimini». Leonardo Amoroso viene condannato alla pena di morte, con altri otto imputati.
Le altre donne
Nelle Relazioni del questore Sangiorgi si trovano altri casi di donne che denunciano. Agata Mazzola e Margherita Lo Verde, vedove di due cocchieri, affiliati a un’associazione di mafiosi, uccisi il 24 ottobre 1897 per punirli di uno sgarro fatto a un capomafia guardaporta dei Florio. Margherita Lo Verde chiede aiuto alla signora Florio, Giovanna D’Ondes Trigona, fermandola mentre stava andando dalle suore di San Vincenzo. La signora la scaccia dicendo: «Non mi seccate, perché vostro marito era un ladro che veniva a rubare nel nostro palazzo» (e quindi meritevole di essere ucciso, secondo la nobildonna?). Margherita Lo Verde non si dà per vinta, racconta tutto ad Agata Mazzola, assieme vanno in questura e fanno i nomi dei mafiosi di cui sospettano.
Nel processo nato dalle inchieste del Questore Sangiorgi, iniziato il 3 maggio 1901, tra i testimoni c’è Anna Gottuso, vedova da vent’anni, indica i detenuti in gabbia, in particolare i fratelli Noto, come responsabili dell’uccisione del marito. Ricorda la signora Vita Rugnetta al maxiprocesso del 1986, che fece il giro delle gabbie dove si trovavano i mafiosi, mostrando loro la fotografia del figlio.
Giuseppa La Rosa, vedova di uno pregiudicato, scomparso nel gennaio 1892, denuncia ai carabinieri che suo marito non è più tornato dopo essere stato invitato a una «divertita» e fa i nomi dei compari che l’avevano chiamato.
Queste sono donne del popolo, come Giuseppa Di Sano, madre di Emanuela Sansone.
La nobildonna
Ma c’è anche una signora dell’alta borghesia, Giovanna Cirillo, vedova di Stanislao Rampolla del Tindaro, di una famiglia della nobiltà delle Madonie, delegato di pubblica sicurezza a Marineo, paese di mafia, come aveva scritto il questore Sangiorgi. Nel 1889 il marito si era suicidato, dopo che aveva tentato di contrastare e denunciare il sindaco, che precedentemente era stato già descritto da un altro delegato come «intrigante, imbroglione, avido di lucro, e nel suo partito conta non pochi malfattori e protegge la mafia». Il delegato era stato sconfitto e trasferito.
La signora Cirillo, che aveva condiviso la vita del marito, scrive un ricorso circostanziato, a partire non solo dai suoi ricordi, ma dai documenti conservati dal marito, che presenta a Francesco Crispi, primo ministro di allora, ma il ricorso viene respinto. Il giudice istruttore nega la fondatezza dell’accusa, del delegato dice che era troppo vecchio per assolvere alle delicate mansioni e che al suicidio era stato indotto da «alienazione mentale». La signora Cirillo viene considerata «una povera vedova», spinta a presentare il ricorso «in un momento di afflizione d’animo che avrà dovuto suscitare in lei il suicidio del proprio marito».
E dopo? L’elenco si allungherà con l’uccisione di donne e bambini e con tante donne che chiederanno giustizia. E non soltanto in Sicilia.











