Dopo una prima parte dedicata alla ricostruzione storica dei più rilevanti eventi bellici successivi alla seconda guerra mondiale, il convegno promosso dal Cesp, di cui abbiamo già parlato, ha lasciato spazio alla rielaborazione didattico-educativa del tema “conflitto”.

Su L’antropologia della guerra, noi e i nemici è intervenuta Gabriella Falcicchio (docente di Pedagogia, Università di Bari). La studiosa ha prima domandato ai/alle presenti se la violenza rappresenti un prodotto “naturale” o “culturale”, ottenendo, ovviamente, risposte significativamente diverse, se non opposte.

Si è quindi concentrata su violenza e aggressività. La prima permea la nostra società e riguarda solo il genere umano che, diversamente dagli altri animali, può scegliere. E’ strutturale, culturale e ambientale, nega l’altro. L’aggressività, invece, manifesta rabbia, chiede ascolto, non è sempre distruttiva.

Occorre imparare ad affrontare il conflitto, non a negarlo e la scuola, o meglio l’educazione, è il terreno privilegiato per rifiutare ingiustizie sociali, di genere, stereotipi, per imparare a non subire passivamente la realtà, mettendo in campo quell’energia trasformativa che si oppone alla violenza, senza replicarne la logica. Invece di educare alla competizione, all’obbedienza acritica, alla sopraffazione del ‘diverso’, occorre vivere in modo costruttivo il conflitto, riconoscendo la piena umanità dell’interlocutore, mettendo al centro del rapporto cooperazione, empatia, cura.

n questo quadro, la relatrice ha fatto riferimento anche alla cosiddetta violenza d’impulso, che non nasce dal nulla, ma da un terreno fertile di tensioni non elaborate, di ingiustizie subite, di modelli relazionali distorti. Per questo è fondamentale riconoscere tutte le emozioni, compresa la rabbia, e imparare – di fronte alla frustrazione – ad attivare connessioni, invece che logiche/comportamenti distruttivi, canalizzando gli impulsi in modo creativo e nonviolento.

Infine, la docente ha ragionato sull’inevitabilità della violenza legata al paradigma storicamente dominante, quello patriarcale, che non è solo un sistema di dominazione maschile sulle donne. Il riferimento alternativo è alle società matrilineari, il cui declino fu determinato dall’arrivo delle popolazioni indoeuropee. Un modello, quello matrilineare, fondato sulla parità dei generi, sulla centralità della vita e della cura, sul modello del consenso, sulla connessione con la natura. Non un impossibile ritorno al passato, ma la prova che modelli sociali non basati sul dominio maschile e sulla guerra sono possibili.

Michele Lucivero (Docente, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università) è intervenuto su: Educare alla pace. Oltre la militarizzazione dell’istruzione. In premessa ha distribuito un questionario per lavorare nelle classi ponendo queste domande:

  • È lecito stilare con i nemici un Trattato di Pace o è più opportuno giungere ad una tregua?
  • È lecito da parte di uno Stato indipendente invadere, occupare, comprare, ereditare un altro Stato indipendente o parte di esso?
  • È opportuno mantenere gli eserciti permanenti? È possibile uno Stato senza esercito?
  • Conviene ad uno Stato in deficit di bilancio muovere guerra ad un altro Stato?
  • È lecito per uno Stato intromettersi con la forza nella costituzione e nel governo di un altro Stato?
  • È ragionevole pensare a regole che possano valere anche per i Paesi in guerra?

Ha quindi indicato nel testo di Kant Per la pace perpetua (1795) un importante riferimento per ragionare su queste domande, partendo dalla “insocievole socievolezza” dell’uomo, dalla capacità di mediazione della ragione e dalla sua abilità di utilizzare gli stessi mali dell’umanità per superarli.

Conseguentemente, il riferimento è sia a ciò che non va fatto, sia alle condizioni positive per fondare giuridicamente la pace perpetua. Nel primo caso occorre agire senza riserve/retropensieri; gli eserciti permanenti devono sparire; non si devono contrarre debiti pubblici per finanziare la politica estera; non si deve interferire nel governo di un altro stato; non si devono commettere, in guerra, atti che renderebbero impossibile la pace futura. Quanto alle condizioni per la pace, ha citato: la costituzione civile di ogni stato che deve essere repubblicana, gli stati che devono federarsi fra di loro; il diritto cosmopolitico che deve limitarsi alle condizioni di un’ospitalità universale.

Nella parte finale dell’intervento, il relatore ha denunciato il pericolo di una progressiva militarizzazione della scuola e di una conseguente articolazione dei processi educativi, sempre più finalizzati all’addestramento e non allo sviluppo del pensiero critico e autonomo. Ha, quindi, ricordato il lavoro dell’Osservatorio contro la militarizzazione che prova a contrastare il fatto che “Le scuole e le università stanno sempre più diventando terreno di conquista di una ideologia bellicista e di controllo securitario che si fa spazio attraverso l’intervento diretto delle forze armate (in particolare italiane e statunitensi) declinato in una miriade di iniziative tese a promuovere la carriera militare in Italia e all’estero, e a presentare le forze armate e le forze di sicurezza come risolutive di problematiche che sono invece pertinenti alla società civile”.

Futura D’Aprile (Saggista, Giornalista free lance), ha trattato il tema: Il mercato delle armi e le guerre. In premessa ha denunciato lo stretto rapporto fra mondo industriale, istruzione e ricerca, sia attraverso accordi specifici, sia orientando la formazione verso le discipline STEM in vista dell’occupazione nelle fabbriche di armi.

Tutto ciò nonostante l’industria delle armi contribuisca solo per circa lo 0,6% al PIL nazionale (il turismo, ad esempio, vale oltre il 10%). E sia un settore fortemente orientato verso l’esportazione, all’interno del quale, in nome dell’emergenza, si deroga costantemente rispetto alle normative ambientali e al diritto alla sicurezza dei lavoratori.

Le guerre, ovviamente, sono un’opportunità per l’industria militare, che sostiene politiche estere aggressive, puntando sulla presenza di una presunta costante minaccia esterna per giustificare budget crescenti. Particolarmente pericoloso il programma ReArm Europe (rinominato Readiness 2030), che prevede un aumento delle spese per la difesa nella UE pari a 800 miliardi di euro nel periodo 2025-2030.

Un programma coerente con l’idea di un’Europa che protegge in primo luogo i propri privilegi e utilizza il denaro pubblico per sussidiare le corporation. Accade così che i profitti della guerra, che vanno agli azionisti, vengano privatizzati ed i costi, pagati dai cittadini con i morti nei conflitti e con i tagli al welfare, vengano socializzati.

Siamo di fronte a un sistema integrato, le armi “legali” spesso finiscono, attraverso deviazioni, riciclaggi o perdite, nel mercato nero o in mani di attori non statali. Più in generale, siamo di fronte a un business circolare: vendiamo armi a chi bombardiamo, e poi finanziamo la ricostruzione.

Certo, esiste in Italia una normativa (“Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento”, L.185/90) che vieta la vendita di armi verso paesi in conflitto o che violano i diritti umani, ma nella realtà non è applicata.

Nonostante il caso Regeni, ad esempio, continuiamo a commerciare con l’Egitto. Ancora, nonostante il genocidio nella Striscia di Gaza, la Leonardo, la principale azienda italiana nei settori dell’aerospazio, della difesa e della sicurezza (controllata da investitori istituzionali per oltre l’80%), mantiene regolari rapporti commerciali con lo stato di Israele. Anche in Italia, come più in generale nel cosiddetto mondo occidentale, si opera perciò secondo la logica del doppio standard, si vendono le armi a regimi autoritari, mentre contemporaneamente si criticano pubblicamente le violazioni dei diritti umani.

Per modificare tutto questo è necessario imporre una riflessione pubblica trasparente, perché si comprenda che “dietro ogni fucile, ogni missile, c’è una catena di responsabilità politiche ed economiche.

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