A cinquant’anni dal suo assassinio, ho riletto le principali raccolte poetiche di Pier Paolo Pasolini: Le ceneri di Gramsci (1957), La religione del mio tempo (1961), Poesia in forma di Rosa (1964), Trasumanar e organizzar (1971). Rileggendo il Poeta, mi sono chiesto di poesia in poesia quale fosse quella a me più cara o almeno quella a noi più contemporanea. Non è stato facile decidersi per l’una o per l’altra poesia, ma alla fine la scelta è caduta su Profezia, dedicata “A Jean Paul Sartre, che mi ha raccontato la storia di Alì dagli Occhi Azzurri” scritta nel 1962 e poi pubblicata in Poesia in forma di Rosa.

La profezia di Pasolini si riassume in questi versi apocalittici, eppure aperti alla speranza, in cui già alla metà degli anni Sessanta immaginificamente si descrive la migrazione dei tanti “Alì dagli Occhi Azzurri” che sarebbero sbarcati sulle nostre coste:

Alì dagli Occhi Azzurri
uno dei tanti figli di figli,
scenderà da Algeri, su navi
a vela e a remi. Saranno
con lui migliaia di uomini
coi corpicini e gli occhi
di poveri cani dei padri
sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sè i bambini,
e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua.
Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali.
Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,
a milioni, vestiti di stracci
asiatici, e di camice americane.
Subito i Calabresi diranno,
come malandrini a malandrini :
“Ecco i vecchi fratelli,
coi figli e il pane e formaggio!”

 

Solo un profeta poteva intravedere così lucidamente il futuro. Se dovessi indicare un chierico del Novecento per rappresentare la resistenza e l’impegno degli intellettuali oggi, non avrei dubbi a fare il nome di Pasolini, un intellettuale debole e antimilitarista, critico inesorabile del tecno-fascismo, antropologicamente comunista eppure “reazionario” perché nostalgico del mondo contadino, trasparente nella sua sfida omosessuale quando il prezzo da pagare era molto alto, irregolare, incollocabile, irriducibile a ogni appartenenza finanche a quella dell’anticonformismo militante, paradossalmente liberale nell’estrema difesa della sua individualità, rappresentante ostinato della singolarità, dell’alterità e dell’antinomia.

Come più volte è emerso nelle conversazioni sul “nostro” Poeta che ho avuto con l’amico Marco Scarnera, l’idea che la nonviolenza sia la R/resistenza di oggi traspare dalla vita e dall’opera di Pasolini, testimone disperato di “una resistenza al fascismo, inteso non tanto come fenomeno storico circostanziato, quanto specialmente come minaccia autoritaria strutturale, sempre incombente e (contro)operante, nelle democrazie (post)moderne”. A un capo dell’opposizione c’è in senso lato il fascismo all’altro capo in senso specifico la democrazia nella forma della nonviolenza.

Il Pasolini a cui si fa riferimento, insieme al Poeta, è in particolar modo l’autore degli Scritti corsari[1]composti negli ultimi anni della sua vita e compresi nel volume omonimo, uscito il 6 novembre di quell’anno, pochi giorni dopo il suo assassinio, che qui si propone di rileggere nella prospettiva di una resistenza nonviolenta. Una prospettiva per la quale il Poeta mostra un interesse se non una adesione: “In tutta la mia vita – scrive in un Frammento inedito raccolto nel volume – non ho mai esercitato un atto di violenza né fisica né morale. Non perché io sia un fanatico della non-violenza. La quale, se è una forma di auto-costrizione ideologica, è anch’essa violenza. Non ho mai esercitato nella mia vita alcuna violenza né fisica né morale semplicemente perché mi sono affidato alla mia natura cioè alla mia cultura.”[2]

Nell’ultima intervista da lui rilasciata il 1° novembre 1975 e pubblicata postuma il 3 novembre in “Stampa Sera”, con il titolo “Oggi sono in molti a credere che c’è bisogno di uccidere”, quasi presagendo la violenza che sta per abbattersi su di lui, il Poeta scaglia la sua denuncia-testamento: siamo tutti potenziali “nuovi assassini”. Dopo essere sceso all’inferno, torna avendo visto “altre cose, più cose”, non porta una buona novella ma una verità terribile: “Qui c’è la voglia di uccidere. E questa voglia ci lega come fratelli sinistri di un fallimento sinistro di un intero sistema sociale.”[3]

Alla domanda di Furio Colombo: “Che cos’è il potere, dov’è, dove sta, come lo stani?”, Pasolini risponde: “Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogatori e soggiogati. Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano allo stesso modo. Se ho tra le mani un consiglio di amministrazione o una borsa uso quella. Altrimenti una spranga. E quando uso la spranga faccio la mia violenza per ottenere quello che voglio. Perché lo voglio? Perché mi hanno detto che è una virtù volerlo. Io esercito il mio diritto-virtù. Sono assassino e buono.”[4]  La tragedia è che “non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra.”[5] Siamo immersi in “una educazione comune, obbligatoria e sbagliata che ci spinge tutti dentro l’arena dell’avere a tutti i costi. In questa arena siamo spinti come una cupa armata in cui qualcuno ha i cannoni e qualcuno ha le spranghe.”[6]

La divisione classica tra deboli e potenti, vittime e colpevoli, buoni e cattivi si è fatta più sfumata, meno chiara e netta, perché, “in un certo senso, tutti sono i deboli perché tutti sono vittime. E tutti sono i colpevoli, perché tutti sono pronti al massacro. Pur di avere. L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere”. Agli oppressi che volevano “abbattere quel padrone turpe senza diventare quel padrone”, si sono sostituiti “altrettanti predoni che vogliono tutto a qualunque costo”.[7]

Pare che siamo nelle mani di un “macchinista impazzito o di un “criminale isolato” oppure alla mercé di un complotto: “Soprattutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità.”[8] Che cosa fare? Pasolini “rimpiange”, ma non crede più alla “rivoluzione pura e diretta della gente oppressa che ha il solo scopo di farsi libera e padrona di se stessa”.[9]

La risposta del Poeta è quella di uno “strano profeta, agile, in guardia, proprio perché disarmato e separato da ogni forma di protezione e alleanze” (Furio Colombo): “Voglio dire fuori dai denti: io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi. È vero che viene con maschere e bandiere diverse. È vero che sogna la sua uniforme e la sua giustificazione (qualche volta). Ma è anche vero che la sua voglia, il suo bisogno di dare la sprangata, di aggredire, di uccidere, è forte ed è generale. Non resterà per tanto tempo l’esperienza privata e rischiosa di chi ha, come dire, toccato la ‘vita violenta’. Non vi illudete.”[10]

L’esempio ci viene dalla storia: “Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi gli eremiti, ma anche gli intellettuali. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto, per funzionare, deve essere grande, non piccolo, totale, non questo o quel punto, ‘assurdo’, non di buon senso.”[11]  Il rifiuto a cui siamo chiamati consiste nel dire No alla violenza che “non lascia più vedere di che segno sei”.[12]

La via è quella indicata dal Poeta: contrastare l’educazione comune, obbligatoria e sbagliata che ci spinge tutti ad avere, possedere, distruggere con una educazione personale, libera, giusta che ci insegna a dare, liberare, costruire.

 

[1] P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975.

[2] Ivi, p. 296.

[3] P.P. Pasolini, Interviste corsare. Sulla politica e la vita 1955-1975, a cura di Michele Gulinucci, liberal – Atlantide Editoriale, Roma 1995, pp. 292 e 295.

[4] P.P. Pasolini, Interviste corsare. Sulla politica e la vita 1955-1975, cit., p. 295.

[5] Ivi, p. 294.

[6] Ivi, p. 295.

[7] Ivi, p. 296.

[8] Ivi, p. 294.

[9] Ivi, p. 297.

[10] Ivi, pp. 292 e 295.

[11] Ivi, p. 292.

[12] Ivi, p. 296.