Continuiamo la pubblicazione dei diari di bordo  dell’iniziativa Mediterraneo Mare di Pace, percorso marittimo della Seconda Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza che sta percorrendo in varie forme il pianeta.

31 ottobre – Quando arrivi in porto dopo molte ore di navigazione il tempo sembra accelerare. Ti svegli alle 7 con l’idea di avere tutta la giornata davanti e, improvvisamente, ti ritrovi a fine pomeriggio a correre per non perdere il traghetto e non mancare l’incontro all’Estaque con il gruppo di pacifisti marsigliesi. Il tempo vola: pulire la barca, rifornire la cambusa, cercare una lavanderia per lavare i panni, combattere contro la rete wi fi che sembra posseduta dal demonio, seguire il bonfonchiare del capitano che combatte da giorni contro uno (citiamo) «stramaledetto meolo». Lo scontro epico tra il meolo, una piccola cimetta che serve per regolare la vela,  e il capitano, per ora è finito in una specie di pareggio ma sospettiamo che sia solo una tregua temporanea. Il meolo è infido e minaccia di vendicarsi. Ma non divaghiamo: in un amen ci siamo ritrovati alle 18 e 25 sul pontile del traghetto a gridare al telefono: «Ma dove siete finiti!! Correte, il traghetto sta partendo!».

Il capitano e uno dei ragazzi, fino a un attimo prima impegnati nella missione lavatrice/asciugatrice/meolo, arrivano di gran carriera con una giustificazione validissima: «L’asciugatrice ci ha messo 12 minuti». Vabbè, nel frattempo abbiamo fatto quattro chiacchiere con la simpatica bigliettaia del traghetto che ci confessa di sapere due parole di italiano. La prima è «ciao», la seconda è «ammutinamento». Ci chiediamo perplessi perché mai ci sia bisogno di ammutinarsi sul traghetto che fa la spola dal vecchio porto di Marsiglia a l’Estaque.

L’Estaque una volta era un piccolo porto di pescatori, è diventato famoso perché lo ha dipinto Cezanne e come lui molti altri pittori più o meno famosi. Oggi è inglobato nella metropoli marsigliese ma non ha perso quella sua aria salmastra: ci sono cantieri, marina con barche a vela, spiagge popolari. La sede di Thalassantè è proprio in riva al mare, vicino al piazzale di un cantiere, anzi il posto ha proprio l’aria di un ex cantiere, e infatti ci spiegano che qui è stata costruita una barca a vela di 19 metri che sta facendo il giro del mondo. Sul pontile davanti una enorme goletta in legno, all’ingresso della sede c’è una piccola barca trasformata in una specie di divano all’aperto. La evitiamo perché l’aria è tagliente e ci rifugiamo nel container-bar dove c’è la cena. Auberge espagnole, c’era scritto sull’invito. Ovvero tutti hanno portato qualcosa fatto in casa. Tutti tranne noi, che avevamo pensato si trattasse di una cena alla spagnola, con paella o cose così.

Siamo arrivati a mani vuote ma in compenso con una fame da lupi e facciamo onore ai piatti degli altri che sono davvero buoni. Davanti al buffet ci conosciamo: si parla della Marcia, dei nostri primi giorni di navigazione, della situazione in Mediterraneo, dei migranti e di come anche a Marsiglia l’onda di intolleranza cresca continuamente (la città è la sede operativa di SOS Mediterranee) ma anche dell’esperienza di una pratica pacifista e nonviolenta che nasce da dentro, da una ricerca interiore. Può sembrare una scelta troppo intimista in un mondo attraversato da venti di guerra. Non è così. La scelta della nonviolenza è una scelta radicale che richiede coerenza tra il dentro di sé e il fuori da sé. Fare pace con se stessi per essere in pace con il mondo e nel mondo. Marie, ad esempio, ha scelto di usare il canto come strumento di pace. Cantare per la pace, cantare insieme ascoltando gli altri per poter unire le voci. E così facciamo: cantiamo, parliamo e ascoltiamo le esperienze degli altri.

Come quella di Philippe dell’associazione Voiles de la paix en Mediterranée. I marinai tra loro si riconoscono a pelle e con Philippe ci riconosciamo come gente di mare: lui racconta che cosa fa la sua associazione insegnando a navigare ai ragazzi. Le sue barche hanno vele dipinte con disegni di pace, ce n’è una dedicata a Malala con l’immagine del volto della ragazzina pakistana, premio Nobel per la Pace. Alla fine della serata ci regala, insieme a una bandiera con scritto Paix, anche una piccola vela dipinta perché venga con noi nel viaggio in Mediterraneo. Ci promettiamo di tornare a marzo a Marsiglia per riportargliela. Una promessa vera, i marinai, contrariamente a quanto si crede, mantengono sempre le loro promesse.

La mattina dopo Philippe viene a salutarci e, come si dice, a mollarci le cime. Ci segue con il suo gommone lungo il vecchio porto. La bandiera della pace che sventola. Lo salutiamo srotolando sul ponte la sua piccola vela di pace. Siamo di nuovo in navigazione. Attorno a noi il suono del mare, come un canto di pace.

Prua su Barcellona.

 

1 -2 novembre – Il trasferimento da Marsiglia a Barcellona comincia con poco vento. Procediamo a vela e a motore. Un occhio alle previsioni che annunciano libeccio, ovvero vento da sud-ovest in aumento. Manco a dirlo: vento in faccia. Cerchiamo di anticiparlo per evitare che ci prenda nel bel mezzo del golfo del Leone.

Nella notte il vento aumenta, temporali e salti di vento. In mattinata comincia il regime di libeccio vero e proprio e procediamo di bolina fino a Barcellona.

La bolina, tra i vari effetti collaterali, ha anche quello che ti rintrona. Dopo un po’ ti senti come un calzino nella lavatrice, peggio: come un calzino attaccato alla battagliola.

Quando vediamo il profilo della Vela, il grande edificio che domina il porto di Barcellona siamo tutti, chi più chi meno, un po’ frullati. La stanchezza si sente. Abbiamo trovato posto all’Oneocean Port Vell, un marina che con noi c’entra come i cavoli a merenda. Facciamo lo slalom tra mega yacht grandi come astronavi. La Bamboo con la sua bandiera della pace provata dai venti non li degna di uno sguardo. Quanta vita avrebbe da raccontare questa barca, quante storie di persone, quante storie di cadute e quante risalite, quante miglia, quante risate, quanti pianti, quanta, come c’è scritto sul boma della randa, «tremenda voglia di mare».  Che è molto più che uno slogan, è un grido di battaglia. La storia di questa barca comincia nel 1982 quando esce dai cantieri Baltic in Finlandia. Passa di mano due volte e quando arriva alla Fondazione Exodus di don Antonio Mazzi ha alle spalle un giro del mondo e dieci anni di regate. Si racconta che quando arrivò la telefonata del generoso armatore che voleva regalare la barca nessuno, lì per lì, capì bene di che cosa si trattasse. Don Antonio è prete che sa molte cose: come tirare fuori la gente dai guai, come costruire una rete di comunità per persone che per un motivo o per un altro sono finite ai margini, sa come formare educatori e mille altre cose, insomma è un prete da battaglia in «missione per conto di Dio», però di barche, almeno all’inizio, sapeva poco o niente. Per fortuna c’era una comunità all’isola d’Elba e per competenza la barca è stata destinata lì. Ed è cominciata così la terza vita della Bamboo diventata, probabilmente l’unico caso al mondo, sede di comunità. Qui, i ragazzi e le ragazze che stanno affrontando il percorso per rimettersi in carreggiata ( e qualcuno, va detto, ha sbandato di brutto) hanno tra i tanti strumenti anche quello della navigazione a vela. La barca è un piccolo mondo dove sei obbligato a rispettare poche ma inderogabili regole (ne va della tua vita), dove devi imparare a rispettare te stesso e gli altri per poter andare avanti, dove il mare ti insegna la paura e il coraggio. Dove puoi letteralmente lasciare a terra il tuo passato e provare a essere una persona nuova.

Ora non vi fate l’idea che sia tutta un affascinante avventura con spruzzi d’onda e vento tra i capelli. Tanto per dire: ci sono state carovane, cioè i viaggi per mare dei ragazzi e ragazze della comunità, così ben riuscite da essersi meritate il titolo di Carovana dell’Apocalisse. Eppure su questa barca tante, ma proprio tante, persone tra una virata e una strambata, una bolina stretta e un gran lasco, hanno ritrovato il loro equilibrio. Qualcuno e qualcuna addirittura è diventato un marinaio fatto e finito e adesso continua su altre barche il lavoro di vela solidale che ha imparato sulla Bamboo.

Con una storia così, è evidente che in questo marina per ricchi non c’azzecchiamo niente. Però fuori soffiano 30- 40 nodi e l’onda sale e sale e sale… non abbiamo molta scelta. Una volta all’ormeggio per segnare la nostra distanza da tutti questi mega yacht oltre alle bandiere della pace e agli striscioni Mediterraneo Mare di pace  stendiamo anche i calzini, le mutande, i sacchi a pelo e le magliette. Per togliere ogni dubbio e marcare la differenza ci mettiamo anche gli strofinacci della cucina.

La mattina  dopo cominciamo aggirarci come marziani alla ricerca delle docce ( detto con tutto l’affetto: dopo tutti questi giorni in mare un po’ puzziamo), ci mettiamo un po’ a capire perché stanno in fondo in fondo, quasi 800 metri dal pontile dove siamo ormeggiati. Poi l’illuminazione: praticamente nessuno le usa. D’altra parte perché usare docce comuni quando hai la Jacuzzi in barca? Anche se la vera domanda  sarebbe: perché mettere la Jacuzzi in barca?

Ci sarebbe molto da dire su come e perché il mare sia diventato un luogo di lusso. Una volta andavano per mare lavoratori, poveri, galeotti e avventurieri. Oggi c’è tutto un sistema che vorrebbe far diventare il mare un luogo per ricchi. Perché? Abbiamo una nostra risposta: perché il mare è bellezza. E qualcuno vorrebbe che questa bellezza fosse un privilegio di pochi. Noi, con i nostri calzini stesi in mezzo ai mega yacht, vogliamo rivendicare un altro modo di andar per mare: un mare solidale dove la bellezza sia alla porta di tutti. Porti pieni di barche sulle quali le persone possano incontrarsi e non barche per escludere.