Potremmo non aver dubbi sul valore morale della disobbedienza, della non collaborazione, dell’obiezione di coscienza a sostenere con le nostre azioni un sistema inumano e disumanizzante.

Tuttavia, vorremmo esaminare, in questo quadro, due aspetti che riguardano la convinzione di lavorare per la giusta causa.

Uno ha a che vedere con l’ineluttabilità delle spaccature e del collasso di questo sistema, il cui valore centrale è il denaro, il cui agire è basato sul possesso, il cui obiettivo finale è l’accumulazione continua e illimitata. Questo mi ricorda molto una definizione del cancro, in biologia, descritto come una riproduzione anomala, velocissima e inarrestabile di un gruppo di cellule. Definizione non esatta. Non è inarrestabile. Ad un certo punto le cellule cancerose avranno fagocitato tutto il possibile, e l’organismo non potendo più sostentarsi morirà, trascinando alla morte anche le cellule cancerose.

Questo sistema non può fallire. Eppure è successo, abbiamo solo bisogno di vederlo crollare per crederlo. Il crollo potrà tardare, forse ancora un anno o due, ma è altrettanto inevitabile come il crollo del blocco sovietico, evidente per qualcuno già alcuni anni prima, benché molti non vollero crederci, nel vedere una facciata apparentemente solida. E il fallimento è in atto, perché il “villaggio globale” è un sistema chiuso, e in poco tempo resteranno solo cellule cancerose che si divorano l’un l’altra.

Quindi, questo è il punto: l’inevitabile crollo di questo sistema, che ci piaccia o no, che lo vogliamo o no, che lo facciamo accelerare o meno. Questo sistema non è riparabile. La sua è una struttura distorta incapace di resistere alle accelerazioni a cui la si sottopone, ma questa accelerazione non si fermerà poiché è la sua stessa ragion d’essere.

Di fronte a questa ineluttabilità, è bene fermarci a riflettere su due termini, due comportamenti, due tipi di risposta. Stiamo parlando del modo in cui un individuo, un gruppo sociale o una comunità reagiscono ai cambi inevitabili.

Ci sono due tipi di adattamento ai cambiamenti: adeguamento crescente, o adeguamento descrescente.

Vediamo prima la seconda opzione: passa attraverso la “conservazione”. Di fronte ai cambiamenti, mi aggrappo alle situazioni conosciute, mi sforzo perché mi danneggino il meno possibile, e cerco di dare un freno per quanto possibile a questi cambiamenti affinchè il “mio” mondo non mi si rovini, per non ritrovarmi sospeso nel vuoto quando la scala che mi sosteneva sparisce. Siccome però questi cambiamenti non possono essere fermati, perchè il crollo del sistema è strutturale, ad un certo punto questo “freno” rimane solo nella mia testa, così io non vedo i cambiamenti e continuo ad agire come se nulla fosse.

Mentre il Titanic affondava, narra la legenda, l’orchestra continuava a suonare, nonostante la nave si stesse inclinando e l’acqua fosse ormai entrata sul ponte, in modo che i passeggeri avessero una sensazione di “normalità”, come se non stesse accadendo nulla di imprevisto prima della fine del prossimo ballo. Questo è l’adattamente decrescente. Guardare dall’altra parte. Non fare caso ai cambiamenti che, inevitabilmente, già stanno avvenendo.

L’adattamento crescente, invece, significa guardare al futuro, verso dove questi cambiamenti conducono, e fare in modo da anticipare questo futuro, per costruire sin da ora strutture coerenti con quel momento in arrivo.

Se un passeggero avesse saputo che era inevitabile per la nave andare a sbattere contro l’iceberg, con un atto di adattamento crescente avrebbe preso a smontare la porta della sua cabina, avrebbe recuperato le strutture di legno del letto, e cominciato a costruire una zattera. Avrebbe perso l’intimità della propria camera, e il godimento del resto del viaggio, non avrebbe ascoltato l’orchestra suonare. Però avrebbe non solo salvato la propria vita, sarebbe anche stato in grado di aiutare altri a salvarsi.

E noi sappiamo che il nostro Titanic affonderà. Ancora non abbiamo sentito il rumore della collisione, non si vede a occhio nudo che si sta inclinando, né si vede l’acqua entrare a torrenti. Sembra che il sistema sia ancora solido. Che tutta la forza sia dalla sua parte. La forza del danaro, la forza delle armi, la forza del potere, le organizzazioni. Ma la verità è che è finito, manca solo il crollo. La questione è se ci crollerà addosso, o se riusciremo ad abbandonare quel corpo prima che cada.

Abbandonare il corpo significa costruire un sistema alternativo, formare strutture nuove, coerenti con la nuova situazione, segnarle con il nostro marchio, inseminarle con il gene della socialità che vogliamo, di quell’umanità che amiamo, e che già vediamo delineata nella sensibilità della nuova generazione che sta dando vita al cambiamento. Formare strutture parallele di ogni tipo: economiche, produttive, sociali, educative, strutture di relazione con gli altri e anche con se stessi. Questo è quello che sopravviverà quando questo sistema crollerà, e se noi siamo già sistemati su queste strutture il mostro non ci crollerà addosso, non ci trascinerà nella sua caduta.

E adesso vediamo il secondo aspetto. Lasciare questo sistema, per quanto riconosciamo che è strutturalmente mostruoso, ci dà le vertigini, ci fa tremare. Questo rappresenta il conosciuto. Ci siamo cresciuti, in quel sistema. Per lasciarlo, è necessario prendere coscienza che ormai è andato in rovina, e che molte delle cose che ci davano sicurezza sono fallite insieme a lui. Dobbiamo modificare i nostri valori. Dobbiamo smettere di credere in questo sistema, nei suoi valori, e cominciare a riporre la nostra fiducia, la nostra fede, in cose che questo sistema ci dice sono incerte, insicure, che sono pericolose. (La banca è sicura. Mettere i soldi nel materasso è pericoloso. Il supermercato è sicuro. L’orto è incerto. Fare l’impiegato è sicuro. Lavorare in proprio è rischioso. La pensione è sicura. La solidarietà sociale è un mito.)

Tuttavia, anche se avvertiamo questa vertigine, quello che è giusto, coerente, l’unica cosa che abbia un futuro è continuare, per quanto è possibile, a tagliare i legami con questo sistema, e proseguire nella costruzione di un nuovo sistema il più rapidamente possibile.

Non è facile. Il sistema ci tiene intrappolati. Siamo suoi ostaggi. Se chiudo il mio conto in banca, non posso pagare Internet, e mi tocca perdere mezza giornata per pagare l’energia elettrica; la tariffa del telefonino è penalizzato. Il mio lavoro può essere detestabile, o magari non tanto, ma comunque è grazie a lui che posso mangiare tutti i giorni. E voglio tenerlo…

Non stiamo dicendo che tutti dovrebbero abbandonare tutto immediatamente. Stiamo dicendo che, progressivamente, passo dopo passo, ma il più rapidamente possibile, dovremmo accelerare, rafforzare, sostenere la costruzione di questo nuovo sistema, dar forma a cooperative (di fatto più che di diritto) di produzione, di consumo, di servizi, di credito, economie alternative, e, mentre tagliamo i lacci, continuare a organizzare il nuovo sistema, mollare gli ormeggi, togliendoci dalla trappola di questo sistema ormai in caduta libera.

Non collaborazione, disobbedienza, ribellione, significa questo: fare il vuoto intorno al sistema. Non c’è nessuna sicurezza nel far questo ma meno che mai ce n’è nel restare nel sistema anche perché non ci stiamo più dentro.

Traduzione dallo spagnolo di Giuseppina Vecchia