Pubblichiamo in anteprima il contributo di Maria Concetta Sala che si proporrà al Convegno di Città Vicine: “Testimoniare il male senza dimenticare il bene” – sabato 17 maggio  ore 16.30-19.30 e domenica 18 maggio ore 10.00-13.00, Milano, Circolo della Rosa, via Pietro Calvi 29. L’annuale appuntamento della rete di vicinanza fra gli abitanti delle città, attraverso le relazioni tra donne e uomini, sarà ospitato dalla Libreria delle donne nel quadro del cinquantenario della sua costituzione_

le città vicine

Come non soggiacere alla desolazione che si insinua sempre più in profondità, alla tristezza che sembra non lasciarescampo, al senso di angoscia e di prostrazione che attanaglia dinanzi agli orrori del presente in aree del mondo più o meno conosciute? Penso in particolare alle e ai palestinesi, ma anche alle e ai sudanesi, siriani, alle e agli afghani, haithiani, e così via, vale a dire a tutti i popoli mendicanti, «quelli che vivono ai margini […], quelli che fanno la storia come i malati fanno la malattia», quelli che «sopravvivono davanti ai Muri, vecchi trucchi costruiti alla fine di ogni guerra, in strisce di sabbia e di roccia, luoghi forse un tempo ameni, dove c’erano alberi e acqua, chissà, forse ma chi ne ha memoria? E oggi c’è polvere o fango a seconda delle stagioni, o magari solo polvere e fango perché perfino le stagioni con i loro labili segni sono fuggite via. I popoli mendicanti sono quelli che sono stati ridotti nel confine più drastico che esista, quello della assoluta inutilità. In terre incognite ricavate a ridosso di frontiere che sfumano nel Nulla»  – così denunciava due anni fa Domenico Quirico con parole tuttora inscalfibili. 

Davanti a queste tragedie, davanti a una ferocia che instilla un catastrofismo senza sbocchi il rischio è l’impietrimento o ancor peggio il sopraggiungere della mutezza. Si può nondimeno sfuggirvi, bisogna solo apprendere a stare nel patimento ma senza rintanarvisi, a schiarire l’orizzonte di senso nella consapevolezza che esistono leggi di un ordine estraneo al dominio economico e all’esercizio della forza sulle e sui deboli. Esse soltanto permettono d’imprigionare ciò che ottunde mente e  cuore, ciò che risulta insondabile e atroce in condizioni di pace così come nel buio senza fine che è ogni guerra. 

Apprendere simili leggi, ovvero fare propria la qualità estetica insita come possibilità altra di esistenza nel vivere, riconduce alla calma, dà voce ed espressione al dolore mediante la distanza che scaturisce dal nostro stesso doloroso silenzio, come suggerisce Anna Maria Ortese in quel capolavoro che è Corpo celeste, e rende tutte/i liberi di respirare e di creare. Apprendere simili leggi equivale a guardare una sventura senza indietreggiare, arrestandosi, così come si guarda un fiore o un frutto senza tendere la mano, fermandosi, in altre parole equivale a «trasfigurare la sensibilità mediante l’illuminazione dell’universale», un  insegnamento che dobbiamo a Simone Weil. Si tratta di vivere trasformando «ogni dolore, ogni sventura subita (- e che si vede subire – e che s’infligge) in sentimento della miseria umana», un sentimento affine a quello del bello. Infatti il dolore, al pari della gioia, non ammala ma avvia un mutamento nel proprio intimo che educa a non distogliere gli occhi, educa a patire e sopportare ciò che è amaro in quanto amaro e di un’amarezza senza consolazione.

Ma noi siamo corpo – «corpo vivente (che nasce, cresce, invecchia e muore), sessuato (che si riproduce incrociandosi con un altro umano di sesso differente), senziente, desiderante e parlante […] non ci definiamo con l’avere, ma con l’essere», e in quanto tali «siamo profondamente uguali, perché le differenze che siamo non rompono l’essere, non lo fanno in tanti pezzi di diverso valore», secondo il pensiero della differenza traslato da Luisa Muraro.                             

E dato che siamo corpo, nasciamo in una condizione di vulnerabilità e in effetti ne abbiamo a tratti percezione, ma del nostro essere vulnerabili e bisognosi di continue cure amorevoli, del nostro nascere nudi e pertanto soggetti a ogni possibile ferita, della nostra finitezza umana non vogliamo avere consapevolezza, perché è una verità che fa paura e perché ci rende vulnerabili «alle ferite di ogni carne, senza eccezione, come a quelle della propria carne, né più né meno. Ad ogni morte come alla propria morte» (Simone Weil).              

Si tratta infatti di una verità sulla condizione umana che non solo permetterebbe di cogliere ciò che condividiamo in quanto viventi – ovvero la vulnerabilità e l’esposizione alla sventura – e quindi di limitare la nostra tendenza a sopraffare l’altro/a, ma anche di essere attraversati dallo sguardo di chiunque giaccia abbandonato/a sul ciglio di una strada o in un androne o tra le rovine di una guerra e  percepirne il muto lamento che sgorga dall’umiliazione, dall’offesa, dalla violenza: perché mi offendi? perché mi opprimi? perché mi uccidi?  Ogni volta che sgomberiamo dal cuore e dalla mente le illusioni e fantasticherie che inducono all’onnipotenza avvertiamo in questo lamento emesso da un mucchietto di carne  non solo l’efferatezza dell’ingiustizia che lo ha colpito ma anche l’aspettativa di bene che lo strazia. Ne consegue allora che non possiamo fare altro che accettare la sua esistenza non come cosa sotto un’etichetta – l’etichetta di sventurato/a, profugo/a, migrante…  – ma come essere altro da noi e tale e quale noi. E non possiamo fare altro che rendergli giustizia. In che modo? prestandogli soccorso, vestendolo se è necessario, nutrendolo se ha fame, andando incontro ai suoi bisogni, come vesto o nutro me stessa, come rispondo ai miei bisogni. L’inclinazione a soccorrere gli altri non deve essere esaltata o decantata, essa va semplicemente esercitata.     

Ma quando è in gioco l’esistenza di un intero popolo? E torno alla questione posta all’inizio da Quirico, e che appare senza possibilità di soluzione. Pensiamo a ciò che sta accadendo al popolo palestinese, una tragedia che si svolge sotto i nostri occhi e che a noi che viviamo lontano dai luoghi del massacro che è la forma più radicale di oppressione (Simone Weil), dai luoghi dell’umanità violata (Roberta De Monticelli) impone di stare, sostare in una sorta di vertigine, fra l’ammirazione nei riguardi dei gesti di un eroismo senza crudeltà compiuti in un paesaggio di rovine – gesti che svegliano la nostra sensibilità e di cui a noi arriva a sprazzi l’eco e il dolore –,  e il lutto per le morti e ferite inflitte alle/agli inermi, per le stragi di tutti gli esseri viventi, per la distruzione perpetrata con crudeltà sadica nei confronti di case, scuole, università, ospedali, biblioteche… in violazione del più elementare spirito di giustizia. Come ci si può sostenere in questa vertigine e come si può sfuggire alla rete dell’irrealtà che ci assedia da ogni parte e rimanere ancorate/i alla realtà?                                                                                                                                                           

In un riassetto del mondo corrispondente all’instaurarsi di un nuovo ordine mondiale determinato dai dispositivi economici delle multinazionali, dalla sorveglianza esercitata dalle nuove tecnologie, dalla repressione di ogni forma di dissenso da parte di Stati sempre più centralizzati bisognerà forse tornare anzitutto ad ascoltare le proprie necessità interiori se desideriamo per davvero ridare luce e slancio al vivere e al convivere e quindi con altre/i avanzare nella ricerca di visioni che contemplino sì ammirazione per il bene che traluce dalla giustezza di mediazioni viventi – concepite dalle donne per amore del mondo e che sovvertono la logica dominante della forza –, ma senza cancellare che solo nell’ambito spirituale ogni bene  produce il bene.                                                                                         

Dalla politica delle donne e con le donne ho imparato che le pratiche delle mediazioni non elaborano né sono «progetti che negano la realtà così com’è per disegnare un futuro immaginato in precedenza, applicando utopie per cambiare la realtà»; si tratta invece di processi aperti nel presente «visto come un divenire, nel quale la propria azione è orientata da qualche cosa che non sappiamo, non sapremmo dire, ma che sentiamo che ci vincola nello scegliere via via l’atto giusto, vero» (Chiara Zamboni). È un sentire in modo lucido – sentire e non solo sapere – che nello scorrere della vita quotidiana ogni trasformazione si dà in risonanza interattiva con i mutamenti interiori, con i mutamenti esterni nel mondo e con i mutamenti connessi all’incessante fluire del tutto nell’universo nel quale siamo immerse/i.  Da questo sentire in modo lucido scaturiscono le azioni simboliche inedite che riuniscono bellezza, verità e giustizia e che contribuiscono a ricreare non solo il vivere di ciascuna/o ma altresì il convivere.