Oggi mi sono fatta un’amica. Si chiama Fatima. E’ la moglie di Suliman, l’amico sudanese che sto seguendo passo passo da quando, nell’estate del 2023, insieme alla moglie e inizialmente a un nipote hanno lasciato la loro città, Khartoum, devastata dalla guerra fra milizie regolari dell’esercito di Burhan e Forze di Supporto Rapido (i Janjaweed degli anni Venti). Dopo essere giunti, attraverso spostamenti difficoltosi e pericolosi, in un campo profughi dell’Etiopia, vicino a Gondar, ed esserci rimasti, fra situazioni altrettanto, se non più, pericolose e precarie, alcuni mesi, Suliman e Fatima si erano diretti a Port Sudan (che fa ora le veci della capitale ed è diventate sede delle ambasciate): viaggio molto difficile, fra il caldo insopportabile e la continua minaccia dei Janjaweed che da nord-overst incalzavano sempre più nella loro direzione. Dopo una tappa obbligata presso alcuni parenti, il viaggio era ripreso e hanno raggiunto la caldissima e umidissima Port Sudan. Qui, una non facile permanenza in convivenza con tanti altri sudanesi, profughi come loro: il tempo di sistemare i passaporti, sempre con l’incubo costante che “l’Egitto non voleva più sudanesi”. Invece loro due “li ha voluti”: grazie alla storia di Suliman, al suo aver lavorato in collaborazione con l’Onu ai tempi delle precedenti guerre dei Janjaweed in Darfur (primi anni Duemila), al suo esser stato riconosciuto dal funzionario dell’ambasciata… insomma via libera per l’espatrio ed eccoli al Cairo, dove stanno attualmente.
Stamattina ci siamo risentiti per telefono dopo diverse settimane: erano molto preoccupati per ‘il mio piede’ (non mi ricordavo neanche che in un messaggio avevo fatto riferimento a un mio piede incidentato da una disavventura casalinga). “Mi dispiace” continuava a ripetere Suliman, ed io a dirgli che non era niente di grave. Fatima – mi diceva lui – era rimasta particolarmente dispiaciuta anche perché pensava che ora che mi ero fatta male non sarei più andata in Egitto a trovarli. Suliman lo raccontava ridendo; ho provato una grande tenerezza per questa donna che non mi ha mai conosciuto direttamente e che evidentemente aveva vissuto come una quasi promessa, comunque un programma di sicura prossima attuazione, una mia uscita di tempo prima con Suliman: “Ora che siete così vicini all’Italia e che dovete trattenervi là (appuntamento per asilo politico a fine agosto, N.d.R.) potrei una volta venire a trovarvi io…”.
Ho voluto parlare poi direttamente con lei: tanto era il desiderio di farle sentire la vicinanza tirando fuori le due-tre espressioni arabe da me imparate che non ho nemmeno pensato a utilizzare l’inglese; lei tranquilla ha cominciato a parlarmi in arabo come se fossi una nativa – le era bastato il mio “Kaifa halluki / halluka?” (un “come stai?” coniugato sia al maschile che al femminile perché non mi ricordo mai qual è la desinenza giusta). Mentre io buttavo là un “La bas, sciucran” (non c’è male, grazie), supponendo che lei mi avesse chiesto la stessa cosa, Fatima continuava a parlare disinvolta nella sua lingua: la sua voce era giovane e piena di energia – una voce di ragazza. Siamo riuscite infine a salutarci con bel “Maha salama”, questo sì reciproco: “Con pace” – a sud e a nord, in oriente e in occidente.
Suliman mi ha tradotto poi quello che Fatima era andata dicendomi con quel tono così deciso e pimpante: che spera di venire in Italia e imparare l’italiano per poter chiacchierare con me. Imparare una lingua per “poter chiacchierare” è la prima volta che lo sento: è un bellissimo scopo – gratuito e unicamente amicale. Per questo ho deciso che oggi Fatima ed io siamo diventate amiche. Lei con la voce da ragazza, lei così resistente e silenziosamente eroica.
Il Sudan intanto è -ahimé- ancora in fiamme. In un trafiletto sul Manifesto del 17 gennaio si parla del conflitto fra l’esercito regolare e le Rapid Support Forces di Mohammed Dagalo come di una guerra che ha causato “una delle più grandi catastrofi umanitarie”, con quasi 11 milioni di sfollati interni e 25 milioni di persone vittime di “insicurezza alimentare”. Inoltre, atroce: “Esecuzioni di massa e stupri come arma di guerra”.
Ieri leggevo una mail in cui la sezione di Medici senza Frontiere impegnata nei suoi ospedali a Khartoum comunicava con la morte nel cuore che avevano dovuto chiudere anche il secondo ospedale della loro associazione presente nella capitale, quello collocato nella parte sud, perché a causa di minacce e di veri e propri atti di violenza perpetrati dai Janjawed nei confronti di medici e pazienti, non erano più in grado di garantire la sicurezza della struttura, né di lavorare con la dovuta serenità (sempre relativa, dato il momento critico). Lo riferisco a Suliman che aggiunge che anche gli altri ospedali di Khartoum ormai non funzionano più, perché la capitale è interamente nelle mani delle S.R.F. Rimane -come nosocomio gestito da MSF. (e quindi gratuito per i pazienti, diversamente dagli ospedali sudanesi)- quello di Ohmdurman, gli sottolineo. E lui conferma che Ohmdurman è ancora sotto il controllo dell’esercito di Burhan.
Suliman mi aggiorna riguardo ad Al-Fashir, la capitale del Darfur del nord, l’unica città del Darfur che sta resistendo ai Janjaweed (tutte le altre capitali – ricordiamo che il Darfur si suddivide in cinque Stati – sono via via capitolate). Ecco come stanno le cose: da circa quattro giorni le Forze di Supporto Rapido con 500 macchine fuoristrada stanno attraversando il deserto che dalla Libia porta verso il Darfur: vengono appunto dalla Libia (che li sostiene) e sono diretti ad al-Fashir per espugnarla. Vogliono farne la loro capitale. In ogni macchina ci sono 15 Janjaweed armati, e immagino quante razzie, violenze e omicidi possano compiere lungo il percorso, se mai in qualche tratto di deserto dovesse esserci qualche villaggio o qualche tenda. E così l’eroica città che ha saputo resistere per un anno e nove mesi ai ripetuti tentativi delle R.S.F. di penetrarvi in tutti i modi, quella Al-Fashir di cui, sola, ancora il governo sudanese può vantarsi, l’emblema di quella pervicace volontà di libertà-giustizia-diritti-pace che pure i cittadini sudanesi avevano saputo manifestare così massicciamente nelle piazze solo qualche anno fa – ora, a forze così palesemente impari, come potrà farcela?
Eppure vogliamo augurarci che ce la farà. Vogliamo augurarci che una tempesta di sabbia mandata da un dio giusto, un dio riparatore, un dio pacifico, li fermi e li areni lì nello stesso deserto dove un altro dio, a lui antagonista, ha fermato e continua a fermare i viaggi della speranza di tanti migranti africani. E che su Al-Fashir possa sventolare la bandiera della libertà, con sopra scritto: “Ce n’est qu’un début”. E che il Sudan possa tornare alla sua cittadinanza libero e in pace.
Link agli articoli precedenti:
https://www.pressenza.com/it/2024/07/storia-di-suliman-e-fatima-in-fuga-da-sudan-ed-etiopia/
https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-e-fatima-di-nuovo-in-sudan-ma-solo-di-passaggio/
https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-fatima-e-la-guerra-infinita-in-sudan/
https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-fatima-e-legitto-che-non-li-vuole/
https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-e-fatima-in-attesa-della-risposta-dellegitto/
https://www.pressenza.com/it/2024/09/suliman-fatima-e-i-certificati-medici-che-non-si-trovano/
https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-fatima-e-legitto-che-si-avvicina/
https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-e-fatima-da-un-port-sudan-di-tutti-matti-a-un-egitto-non-amato/
https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-e-fatima-finalmente-in-egitto/
https://www.pressenza.com/it/2024/11/suliman-e-fatima-il-nilo-del-cairo-non-e-il-nilo-di-khartoum/
https://www.pressenza.com/it/2024/12/suliman-e-fatima-i-janjaweed-fanno-tante-cose-non-bene/
https://www.pressenza.com/it/2024/12/suliman-e-fatima-in-egitto-ma-ancora-invisibili/