(ndr) Ieri molte carceri italiane si sono unite nella protesta per il degrado, il sovraffollamento, le condizioni inumane di detenzione inflitte a chi sta dentro e anche a Torino, le sonore battiture alle inferriate hanno scandito più forti che mai gli slogan: libertà, libertà!

Se fosse stata a piede libero, ai piedi di quelle mura, per manifestare solidarietà alle detenute, ci sarebbe stata anche lei, Nicoletta Dosio. Essendo com’è noto in stato di “detenzione domiciliare” dal 1 giugno, la mezzora di battiture è risuonata anche davanti a casa sua a Bussoleno, Val di Susa, con il concorso dei compagni di sempre…

 

Ferragosto. Oggi il tempo gioca tra i temporali e il solleone.

In questo quartiere dove vivo, ai piedi della montagna, tra orti e giardini, prevale la quiete di una mattinata quasi deserta. Case vuote, silenzio, la malinconia delle ore trascorse senza gioia né dolore.

Ma ecco che, allo scoccare del mezzogiorno, qui, fuori dal mio cancello, parte la “battitura”. E’ il secondo appuntamento dell’iniziativa che, in questa mezz’ora, viene tenuta nelle carceri di tutt’Italia per protestare contro le invivibili condizioni carcerarie.

Il mio essere “dentro”, sottoposta ai domiciliari, è una restrizione blanda rispetto all’indicibilità del carcere fatto di muri invalicabili, cancelli, metaldetector, blocchi sovraffollati, sbarre, blindi, cubicoli dove ci si muove a fatica e manca il respiro.

Ma ho provato quell’inferno e sono qui a manifestare per tutti e tutte loro, le mie compagne di quel tempo lontano ma mai dimenticato e le tante di oggi, che non conosco, ma che sento ugualmente sorelle.

Le reti della mia cancellata diventano metafora di quegli sbarramenti, di quelle reclusioni senza possibilità reale di speranza e di riscatto, per cui troppe e troppi preferiscono il suicidio a quella non-vita, alla brutalità di quel vuoto mostruoso.

Qui con me ci sono le mie sorelle e i miei fratelli del Movimento NO TAV: io dentro la cancellata, loro fuori.

Battiamo: pentole, coperchi, tamburi, bastoni, pietre.

Guardo i loro volti amici, sento le loro voci affettuose e allegre e respiro il mondo libero e solidale che vorrei anche per le vite recluse.

Con noi sono arrivati una giovane coppia di compagni e il loro bimbo, dolcissimo, riccioli biondi e grandi occhi azzurri. Batte su un suo tamburello, come un gioco, e ci osserva con curiosità e fiducia.

Mi si accende dentro, fulminea e dolorosa, l’immagine di un altro bambino: anche lui sui tre anni, la stessa età di questo piccolo, riccioli neri, occhi come due stelle. Rimase qualche giorno con la mamma nella sezione accanto alla mia. Lo potevo vedere dal cancello affacciato sulla rotonda dove confluivano le sezioni. Poi non lo vedemmo più. La madre tentò il suicidio: glielo avevano tolto e dato in affidamento.

Carceri a Ferragosto: l’esclusione diventa tortura. Nessuna attività né visite di parenti, passi perduti in corridoio o immobilità in branda, biblioteca chiusa, niente posta, niente pacchi, niente di niente.

Il 15 agosto del 2013, insieme a un altro attivista, accompagnammo l’eurodeputato Gianni Vattimo in visita alle Vallette. Era una visita senza preavviso, come gli eletti del popolo dovrebbero fare di norma e non fanno (di quell’atto dovuto, al deputato Vattimo restò un processo “per falso in atto pubblico” che si concluse con l’assoluzione per non aver commesso il fatto).

Niente Direttore. Dopo non poca attesa, venne ad accompagnarci un trafelato capo delle guardie (la chiamata doveva essergli giunta mentre stava per sedersi a tavola, per il pranzo di ferragosto in famiglia).

Arrivavamo da strade roventi per la canicola, ancora affollate degli ultimi gitanti in fuga dalla città verso il miraggio delle solitudini alpine. Di quel non-luogo in cui, dopo ripetuti controlli, fummo introdotti, mi colpirono prima di tutto l’oscurità e il silenzio quasi tombale.

La visita cominciò dal braccio dei “transiti”.

Riuscimmo a salutare, oltre le sbarre dei “nuovi giunti”, un compagno arrestato durante l’ultima manifestazione NO TAV. Poche parole e rientrò nell’ombra.

Passammo poi alle sezioni penali.

Scala dopo scala, corridoio dopo corridoio, cella dopo cella. Sovraffollamento negli angusti cubicoli. Afa insopportabile. Figure silenziose affacciate ai blindi. Qualcuno seminudo accovacciato presso la finestrella in cerca di un filo d’aria.

Un’umanità oppressa, l’insensatezza di una pena che era solo tortura, davanti a cui passavamo come presenze ininfluenti, in fondo inutili agli occhi di chi, per esperienza, aveva disimparato a sperare.

Quel giorno mi fu possibile intuire quanto ebbi modo di provare sette anni dopo, quando dietro quelle sbarre, per breve tempo, ci finii anch’io.

La mezz’ora di battitura anche per oggi è finita. Respiro intorno a me l’amore generoso delle mie sorelle e dei miei fratelli di lotta.

In carcere ricevetti un messaggio che sempre mi torna in mente, nei momenti bui: “il cuore è una bomba ad orologeria”. E’ la vita stessa che chiede liberazione, e il cuore è vivo e batte il ritmo della ribellione, la lotta collettiva che abbatterà i muri reali e metaforici e vi libererà, ci libererà, care sorelle e fratelli detenuti.


Nicoletta Dosio