Lo scorso 15 febbraio è stato approvato dalla Camera il nuovo decreto legge riguardante le Ong e il soccorso in mare. Con 187 voti favorevoli, 139 contrari e tre astenuti è passata quella che la Sea-Watch ha definito una norma disumana, tesa solamente a «criminalizzare l’attività delle navi civili», in aperta violazione del diritto internazionale. L’organizzazione tedesca non è stata l’unica ad esprimere la sua contrarietà nei confronti del Decreto Ong a firma Piantedosi (che in questi giorni verrà esaminato dal Senato). Insieme ad altre venti organizzazioni SAR (tra cui Emergency, MEDITERRANEA Saving Humans, Open Arms, Sea-Eye e SOS Humanity) ha firmato un comunicato ufficiale che invita il governo italiano a «ritirare immediatamente il decreto legge appena emanato». L’appello è arrivato anche da parte dell’ONU: oltre ad aver chiesto all’Italia di fare un passo indietro, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite Volker Turk ha esortato il Paese a collaborare con le Ong – anziché tentare di ostacolare le loro attività – così da accertarsi che «qualsiasi proposta di legge sia pienamente conforme al diritto internazionale dei diritti umani, al diritto internazionale dei rifugiati e ad altri quadri giuridici applicabili».

Il motivo per cui il Decreto Piantedosi è stato duramente criticato da parte della comunità internazionale è dovuto alle seguenti misure. Innanzitutto, impone alle Ong di compiere solamente un salvataggio. Le navi civili sono quindi obbligate a procedere con lo sbarco dopo ogni operazione di soccorso. Ciò significa che non è consentito effettuare salvataggi plurimi. La misura viola quanto imposto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, secondo cui il capitano ha l’obbligo di soccorrere immediatamente chiunque sia in situazione di pericolo. Un ulteriore ostacolo per le Ong deriva dall’assegnazione dei porti di sbarco: negli ultimi tempi, infatti, si sono fatti sempre più distanti dalle aree in cui vengono eseguiti i salvataggi. Le organizzazioni, in tal modo, sono costrette a navigare anche per giorni con a bordo persone bisognose di aiuto e senza la possibilità di salvare nessun altro. Il risultato è un’evidente perdita di tempo prezioso. Come se ciò non bastasse, il decreto legge prevede che il comandante si occupi della raccolta dei dati dei richiedenti asilo. Si tratta dell’ennesima misura volta a rallentare l’operato delle navi di soccorso. Secondo l’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) l’operazione – che dovrebbe spettare agli Stati – è da effettuare a sbarco completato e «solo una volta soddisfatte le necessità immediate».

Il governo Meloni ha ratificato il decreto nel periodo tra Natale e Capodanno e le misure sono entrate in vigore a inizio 2023. Ancora una volta si è fatto rifermento alla retorica dell’emergenza, nonostante i dati più recenti sul calo del numero dei posti occupati nei centri di accoglienza dimostrino il contrario. La risposta del Consiglio d’Europa non ha tardato ad arrivare. Il 26 gennaio è stato domandato all’Italia, tramite una lettera, di «considerare la possibilità di ritirare il decreto legge» o, in alternativa, modificare il testo in modo da rispettare gli «obblighi del Paese in materia di diritti umani e di diritto internazionale». Quello che preoccupa del nuovo decreto è che, con le sue restrizioni, si trasformi in un ostacolo per il soccorso in mare ad opera delle Ong, costrette a rinunciare ai salvataggi multipli per via dell’obbligo di sbarco delle persone che sono già state salvate nel porto assegnato. Le navi di soccorso, come spiegato nel comunicato diffuso delle organizzazioni SAR, solitamente effettuano più salvataggi in diversi giorni. I porti assegnati dal governo italiano, inoltre, in certi casi sono a quattro giorni di navigazione dall’area in cui si trovano le navi civili, le quali, se considerate non conformi alle nuove misure, rischiano di essere sanzionate con multe che possono raggiungere i 50 mila euro.

Nella nota diffusa dall’Onu viene anche fatto notare che con la nuova legge il pericolo di intercettazioni e rimpatri in Libia è destinato ad aumentare. L’organizzazione, in passato, aveva già segnalato la condizione di costante violazione dei diritti umani in cui sono costretti a vivere i migranti intercettati in mare e riportati nel Paese. Solamente un anno fa, in un rapporto realizzato in seguito ad una missione in Libia, l’ONU ha denunciato il sistema basato sulla violenza che caratterizzata i cosiddetti centri di accoglienza (o, meglio, di detenzione arbitraria) in cui ogni giorno migliaia di persone vengono minacciate, torturate, stuprate e uccise. Si tratta degli stessi campi che il governo italiano supporta tramite il Memorandum d’intesa sulla migrazione: un accordo tanto disumano quanto le leggi che criminalizzano il soccorso in mare, firmato nel 2017 con l’intento di tenere il più lontano possibile gli uomini e le donne che rischiano la loro vita in mare. Il Memorandum (rinnovato lo scorso 2 novembre) prevede il finanziamento da parte dell’Italia della guardia costiera libica e, di conseguenza, dei centri di detenzione.

Cindy Delfini

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