C’è l’uomo nero, l’umore nero, una giornata nera, chi è incavolato nero. Il colore nero culturalmente in Italia ancora rappresenta qualcosa di negativo, di pericoloso. Così come i corpi neri sono percepiti e raccontati come cattivi, clandestini, illegali, criminali, quindi pericolosi. Nelle pubblicità e sui cartelloni per strada raramente si vedono persone nere, così come nei film, in televisione, nei cartoni animati, tra le bambole e i giocattoli.

Eppure l’Italia ospita circa un milione e mezzo di persone afro-discendenti di prima generazione, da sommare a quelle che nel nostro paese ci sono nate.

Siamo nel 2023 e la parte più retrograda della cultura del nostro paese continua a voler andare contro la storia. Al contrario, i giovani italiani, che rappresentano il futuro, stanno dando indicazioni chiare su come dovrebbero andare le cose. Non solo, stanno facendo in modo di cambiare le storture di una società che discrimina a partire dalle parole e dalla comunicazione.

Susanna Owusu Twumwah è una di loro. 28 anni, di origini ghanesi, la dottoressa Owusu Twumwah è esperta in comunicazione e in cooperazione internazionale. Il suo curriculum straborda di eccellenza. Laureata in Cooperazione e Sviluppo, un master in studi sulle migrazioni e le diaspore, negli ultimi anni ha lavorato come libera professionista nel campo della comunicazione, soprattutto digitale, a livello nazionale e internazionale. In particolare, ha svolto un lavoro sia professionale che associativo sul cambio di narrazione in merito a quelli che vengono definiti i “corpi razzializzati”.

Ma non finisce qui. Più concretamente, lo scorso mese a Roma, in occasione della sesta edizione di “Italia Africa Business week”, Susanna Owusu Twumwah ha lanciato la sua nuova start up: la piattaforma DiveIn. Si tratta di una piccola agenzia di comunicazione che si occupa di trattare con occhio attento i temi della diversità, per portare un nuovo tipo di comunicazione più innovativo, creativo e giovanile, per cambiare la narrazione distorta dei corpi neri. DiveIn si rivolge a tutti gli enti del terzo settore e del settore privato, affiancandoli e aiutandoli a formulare una comunicazione inclusiva su misura.<
Abbiamo chiesto a Susanna Owusu Twumwah se abbia incontrato difficoltà a fare impresa in Italia:

 

“Se devo essere sincera, – ha raccontato –  nel mio lavoro in questi anni ho indubbiamente incontrato delle difficoltà in quanto donna nera. Però allo stesso tempo ho anche nuotato in acque molto sicure, semplicemente perché spesso ho il piacere di lavorare in ambienti che sono molto vicini alle tematiche che ho studiato e in cui mi sono specializzata. Quindi, nonostante le mie difficoltà, a livello lavorativo ci sono delle cose su cui riesco a tutelarmi”.

La Dott.ssa Owusu Twumwah ci ha poi spiegato come è nata l’idea di un’agenzia per cambiare la narrazione sui corpi razzializzati:

“Sostanzialmente questa agenzia nasce dalla necessità di raccontare un mondo plurale, un mondo dinamico. Non parte dalle mie esperienze personali di discriminazione perché sono altri i luoghi in cui parlare delle discriminazioni dirette. Anche perché secondo me parlare delle discriminazioni del singolo in qualche modo sposta l’attenzione da quella che è la natura sistemica del razzismo. Il razzismo è un sistema di potere che si trova e si insinua in tutti gli ambiti della vita, quindi parlare di una esperienza singola, per quanto possa essere dolorosa, è riduttivo.

Questa agenzia nasce come risposta alla comunicazione manchevole in Italia, sia a livello visivo che di linguaggio. Mi riferisco al fatto che nei media tradizionali non siamo abituati a vedere corpi che non sono bianchi, non siamo abituati a vedere corpi che non sono magri. Nella TV italiana non si vedono i corpi che alcuni chiamano “non conformi”, espressione che non mi piace, ma che indica corpi non corrispondenti agli standard europei. Anche a livello di marketing, quindi di pubblicità che vediamo quando giriamo nelle città, c’è ancora una comunicazione con soggetti sempre e solo bianchi.

DiveIn nasce anche dal fatto, spostandoci su stampa e media digitali e non, che spesso non viene utilizzato un linguaggio puntuale per parlare di corpi razzializzati. Faccio un esempio tecnico: molte volte le testate giornalistiche utilizzano il termine “di colore”. Mi chiedo: di quale colore? Il colore può essere giallo, rosa, verde. Ma in maniera oramai inconscia, quando si dice di colore ci si riferisce a dei corpi neri e questa associazione è una associazione negativa. È qui che DiveIn vuole dare il suo supporto per ri-ragionare a partire dal linguaggio, dal momento che comunque tutto quel che facciamo e pensiamo è fatto di parole. Quindi se le parole sono sbagliate vuol dire che ci stiamo muovendo ideologicamente in una maniera sbagliata.

In definitiva, DiveIn va a rispondere a questa poca attenzione da parte delle aziende e da parte soprattutto degli enti del terzo settore che dovrebbero essere ancora più sensibili a queste tematiche. La mission, dunque, è rispondere a queste mancanze offrendo dei servizi che vanno dalla cura delle piattaforme digitali e non solo, ma anche proprio semplicemente a livello strategico. Faccio un esempio pratico: ci potrebbe essere un’azienda che vuole strutturare una campagna di sensibilizzazione su questi temi ma non arriva con il budget ad assumere una persona permanente. Ecco che può rivolgersi a DiveIn per cercare di avere l’approccio giusto, il linguaggio giusto, la scelta di immagini competente, inclusiva”.

Lo scorso autunno è uscito il teaser del nuovo film della Sirenetta atteso nelle sale a maggio 2023.  A parte le sterili polemiche, ha impressionato quanto siano diventati virali su tutti i social i video di bambine che impazziscono di emozione o crollano addirittura in lacrime quando scoprono che la protagonista Ariel è nera. Susanna Owusu Twumwah ha commentato:

“Ariel è l’ennesimo esempio di quanto sia difficile uscire dagli standard di bellezza occidentale. Tutta la polemica che era uscita rispetto a Ariel serve solo a rimarcare che secondo alcune persone tutto ciò che non è bianco non è normale, non è centrale, non è uno standard da prendere in considerazione. Nei media così viene fatto il cosiddetto white washing, cioè si cerca di schiarire i personaggi per far sì che vengano accettati più facilmente da un pubblico su larga scala.

Il fatto che la nuova sirenetta sia nera invece è, al contrario, un fenomeno che ci dice che le aziende hanno voglia di cominciare a rappresentare la società per quello che è, a dare delle narrazioni plurali. La reazione delle bambine che vedono Ariel nera per la prima volta è sia bella che brutta. Bella perché finalmente si vedono rappresentate, brutta perché ci fa capire quanto fa male non proporre delle narrazioni plurali. Non dovremmo arrivare a vedere delle bambine piangere per capire quanto è importante una narrazione plurale. È un punto di cambiamento? Sì, perché comunque fa sì che si producano queste discussioni sulla rappresentazione dei corpi neri e si cominci a mettere al centro e a problematizzare un’unica narrazione del mondo.

Per alcune aziende resta il dubbio che questo cambiamento che stanno facendo sia solo di facciata.

Da una parte ci vuole attenzione nel realizzare questi processi attivi e pratici, dall’altra bisogna anche scardinare le mentalità e, oso dire in maniera generale, gli apparati che producono questi oggetti, questi materiali, queste politiche a 360 gradi. Un esempio pratico: quando andiamo in Inghilterra e siamo tutti contenti di vedere le infermiere non bianche, non si considera che purtroppo ai vertici della sanità inglese ci sono solo persone bianche. Questi sono dei primi passi di facciata, non sono sufficienti, ma comunque fanno cominciare a sperare in bene”.

Susanna Owusu Twumwah è un esempio eloquente di quanto i nostri giovani siano consapevoli, capaci e decisi a costruire una società migliore, a dispetto delle campagne denigratorie che vengono continuamente fatte nei loro confronti. Cominciamo a sperare in bene.

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