Silvano Falocco: Il colonialismo italiano, nella memoria pubblica nazionale, semplicemente non esiste; andrebbe inserito come capitolo dei libri di storia, non omesso. Intervista a Silvano Falocco, coautore del libro Roma Coloniale edito da Le Commari edizioni (2022).

Da dove nasce questo libro?

Il libro si propone come una naturale continuazione del nostro precedente “La Resistenza a Roma. Un’orazione civile” per rintracciare le storie dell’odonomastica coloniale – vie, viale, piazze, ponti, palazzi, busti, lapidi – completamente rimosse dalla nostra memoria. Roma, con oltre 150 odonimi, è il luogo d’Italia maggiormente connotato da quell’esperienza storica.

E’ un compito improbo perché il colonialismo italiano non viene trattato in nessun manuale di storia, né per il tempo di Crispi né per il ventennio fascista. Azzerate le invasioni, le aggressioni, le fucilazioni, le stragi, i campi di concentramento, l’uso di gas chimici, la legislazione razzista. Il “mito del bravo italiano”non viene scalfito da nulla.

E invece il rimosso coloniale ci riguarda ancora ora, è carne viva, una ferita aperta che spiega molte cose: il periodo di massimo consenso al fascismo, le diseguaglianze globali, dovute al colonialismo, e i fenomeni di odio razziale nelle metropoli europee.

Quali sono stati i crimini più efferati dorante il colonialismo italiano?

Studi approfonditi e documentati hanno stimato in quasi 700.000 le persone vittime del colonialismo italiano in Eritrea, Libia, Etiopia e Somalia, che inizia con i governi liberali e termina con il fascismo.  E’ ormai ampiamente accertato il largo uso di aggressivi chimici (iprite, fosgene, etc.) contro le popolazioni locali, sporadicamente in Libia e massicciamente in Etiopia, nel corso degli anni 1935-39, dove vennero impiegate non meno di 500 tonnellate di gas chimici.

E stato documentato il ricorso ai campi di prigionia, in Eritrea, nell’isola di Nocra, in Cirenaica, ad Agedabia, Marsa Brega, Sidi Ahmed el-Magrun, el Abiar, el Agheila e Soluch, in Somalia, a Danane, così come è stata definita “genocidio” la morte di 100.000 libici (quasi tutti civili) in Cirenaica, sterminati o lasciati morire di fame e sete delle truppe comandate dal generale Rodolfo Graziani.

L’occupazione coloniale fece registrare tre stragi di eccezionale gravità di cui, nel nostro paese, anche nelle scuole, non si ha alcuna memoria: la strage di Addis Abeba del 19-21 febbraio 1937 che portò, in diverse ondate, a oltre 20.000 morti, ricordati dal memoriale Yekatit 12 eretto in una piazza centrale della capitale etiope; la strage del monastero di Debre Libanos del 21-29 maggio 1937 che portò all’uccisione di circa 2.030 persone, 30 invalidi, 1.600 monaci, 124 diaconi, 276 insegnanti; la strage di Caia Zeret, tra il 9 e l’11 aprile 1939, con uso di gas tossici nella grotta Amazegna Washa da parte del plotone chimico della Divisione Granatieri di Savoia e successive fucilazioni per complessivi 2.000 morti.

Inoltre l’Italia, pur avendo sottratto un’enorme patrimonio artistico religioso con un furto sacrilego da chiese e monasteri, in particolare Debre Libanos, di tesori inestimabili e pur essendosi impegnata alla restituzione di tale patrimonio all’Etiopia con il trattato di pace del 1947, nulla ha restituito a questo paese, a parte la Stele di Axum, tra irresponsabili polemiche.

A 100 anni dalla marcia su Roma, l’Italia fa fatica a fare i conti col fascismo per quanto riguarda le leggi razziali e le deportazioni degli ebrei. La situazione è ancora più difficile quando parliamo di colonialismo?

Il colonialismo italiano, nella memoria pubblica nazionale, semplicemente non esiste; andrebbe inserito come capitolo dei libri di storia, non omesso.

Per questo sarebbe utile istituire, come si propone la mozione 232 approvata dal Consiglio Comunale di Roma il 6 ottobre 2022, il 19 febbraio (data di inzio, nel 1937, della strage di Addis Abeba) un «Giorno della memoria per le vittime del colonialismo italiano», in cui organizzare – coinvolgendo anche le amministrazioni locali e regionali, in stretta condivisione con le comunità e le persone afrodiscendenti – iniziative, incontri e momenti di riflessione, in particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, sul periodo di occupazione coloniale italiana in Etiopia, Eritrea, Libia e Somalia in modo da conservare la memoria di un tragico e oscuro periodo della storia del nostro Paese e far sì che simili eventi non possano più accadere.

Occorre poi ricordarsi che la violenza del colonialismo non si è scatenata solo con ii genocidi, nei campi di concentramento e con le le stragi, ma anche con l’apartheid razzista; è proprio lì che venne inaugurata la politica razzista del fascismo, con l’approvazione, il 19 aprile 1937, delle “Sanzioni per i rapporti d’indole coniugale fra cittadini e sudditi” che prevedevano la reclusione da 1 a 5 anni per “il cittadino italiano che nel territorio del Regno o delle Colonie tiene relazione d’indole coniugale con persona suddita dell’Africa Orientale Italiana o straniera appartenente a popolazione che abbia tradizioni, costumi o concetti giuridici e sociali analoghi a quelli dei sudditi dell’Africa Orientale Italiana”. Ma il colonialismo italiano è ancora oggi materia incandescente perché nascosto o banalizzato.

Nel libro sono indicati tutti i luoghi dove vengono ricordate e celebrate le battaglie, le vittorie, e le persone legate al colonialismo italiano. L’azione più giusta per dimostrare che abbiamo fatto i conti con la storia sarebbe quella di cancellare e sostituire quei luoghi, per poi fare un museo e un monumento in ricordo dei crimini del colonialismo italiano. Tuttavia una proposta del genere verrebbe accusata di cancel culture. Lei che risposta darebbe ad una simile accusa?

L’azione più giusta, oggi, a nostro avviso è quella di ri-significare quella odonomastica perché le didascalie riportano indicazioni non veritiere. Ascianghi non viene ricordato perché è un “Lago dell’Altopiano Etiopico” ma perché luogo di di una battaglia, dopo quella di Mai Ceu, in cui vennero uccisi migliaia di etiopi in seguito all’uso di gas chimici. Amba Aradam non sta lì a celebrare il “Massiccio montuoso del Tigrè in Etiopia” ma la strage feroce di 20.000 etiopi e l’Endertà non è affatto la “Gloriosa località della guerra italo-etiopica (1936)”, come riporta la didascalia, ma il luogo in cui quel massiccio è sito.

La nostra proposta è quindi chiara: non rimuovere gli odonomi ma chiarirne il significato per evitarne ulteriori rimozioni, ma dalla memoria.

Certo qualche volta si tratta di rimuovere, come nel caso del palazzo ex Gil, di proprietà della Regione Lazio, che l’amministrazione ha ribattezzato We Gil, ovvero “Noi, Gioventù Italiana del Littorio”; in questo caso il nome andrebbe del tutto rimosso.

Un cenno finale infine alla “Cancel Culture”: occorre parlarne ma con senso della misura. La vera cancellazione non è tanto quel che ci si imputa di voler fare ma quella del colonialismo dalla memoria pubblica nazionale. La domanda andrebbe rovesciata e rivolta a chi lancia quell’accusa: come si pensa di poter ricordare quegli eventi se ancora li celebriamo con le strade? Come possiamo parlare serenamente e liberamente di Amedeo d’Aosta se la città di Roma ancora lo celebra con un ponte?

Di questo dovremmo poter discutere, senza pregiudizi, altro che “cancel culture”.