Sono trascorsi due anni dal sequestro e della deportazione negli Stati Uniti del diplomatico venezuelano Alex Saab. Due anni durante i quali è cresciuta la solidarietà e anche l’indignazione per l’arroganza con cui Washington si è fatta beffe del diritto internazionale, creando un pericoloso precedente. Calpestare l’immunità di un diplomatico, accreditato come ambasciatore plenipotenziario del Venezuela in Africa, non è proprio un atto corrente. Gli Stati Uniti se lo sono permessi nel quadro dell’assedio internazionale al Venezuela, che Saab ha cercato di spezzare, importando alimenti e medicine nonostante le misure coercitive unilaterali imposte dagli Usa.

Imprenditore di origine palestinese, Saab ha aiutato il Venezuela ha costruire una strategia di sopravvivenza, rifornendo a proprio rischio e pericolo le borse di alimenti (il Clap) con le quali il governo bolivariano ha cercato di far fronte alla crisi creata dalla drastica caduta degli introiti. Approfittando della subalternità del governo di Capo Verde, incurante dei pronunciamenti degli organismi internazionali, ma molto attento ai voleri di Washington, durante una sosta per il rifornimento di carburante, la Cia ha fatto scendere a forza dall’aereo il diplomatico e l’ha portato in un carcere. Lì, a dispetto del suo status di diplomatico, è stato isolato e torturato, e infine portato nottetempo negli Usa anche se l’iter dei ricorsi messo in campo dalla difesa non era ancora terminato. Una reddition in piena regola, come avvenne dopo l’11 settembre per i cosiddetti “combattenti nemici”.

Da allora, Saab si trova in una prigione della Florida. Inizialmente era accusato di riciclaggio e altri 8 reati, tutti decaduti a parte quello di “cospirazione”. L’udienza per il riconoscimento dello status di diplomatico, che metterebbe fine all’aberrazione giuridica, viene però costantemente rimandata. L’ultimo rinvio, è per il mese di agosto. Intanto, non si ferma la macchina del fango, sia nei confronti di Saab che della sua famiglia. Qualche mese fa, dagli Stati Uniti era filtrata la notizia (falsa) che il diplomatico stesse facendo delle dichiarazioni contro il governo Maduro. La difesa ha smentito e il governo bolivariano ha rinnovato agli Stati Uniti le richieste per la sua liberazione, rompendo i colloqui con l’opposizione che si stavano svolgendo in Messico: Saab, ha detto Maduro, è anche capo-delegazione nel dialogo di pace con l’opposizione pilotata dagli Stati Uniti. La moglie del diplomatico, Camilla Fabri, con la quale ha avuto due figli, è italiana, e ora vive in Venezuela, da dove anima il movimento per la liberazione di Alex.

Ora, anche in Europa – in Italia, in Francia, ma anche in alcuni paesi dell’Europa orientale – si sta organizzando il movimento Free Alex Saab.