Arriva un messaggio WhatsApp. Arriva e diventa immediatamente virale. Davanti al cancello del Tribunale di Roma, di Piazzale Clodio, il tempo si ferma per un infinitesimo e poi parte uno scrosciante, sempre più lungo applauso. Mentre le telecamere dei giornalisti presenti, deposte in attesa, vengono rimontate di corsa e cominciano a riprendere la folla che si era radunata in attesa della sentenza, si vedono volti commossi, di attiviste/i intergenerazionali, di rifugiati, di uomini e donne che si sentivano, forse è più corretto dire “ci sentivamo” come nostro, come una inutile e gratuita violenza, un segnale di ingiustizia inaccettabile.

Una storia assurda, che oggi farebbe anche sorridere se non ci fossero stati nel frattempo anni di intercettazioni, di intrusioni nella vita privata, di tentativi, peraltro destinati al fallimento, di far apparire chi soccorre i migranti come persona che compie un reato. Il processo ad Andrea Costa, presidente di “Baobab Experience” e altre due attiviste, una delle quali, la giovane Sara Zuffardi, iscritta a Rifondazione Comunista, non avrebbe dovuto neanche aprirsi. I tre erano accusati in sostanza di avere nel 2016, quando già i governi di centro sinistra istillavano il veleno securitario, aiutato 9 ragazzi, (8 sudanesi e uno del Ciad) ad andare da Roma a Ventimiglia pagando loro il biglietto del treno. Il reato? “Favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Vista l’impossibilità di trovare accoglienza dignitosa a Roma e conoscendo il campo della Croce Rossa di Ventimiglia, i nove avevano deciso di andarsene lì per non rischiare di dormire all’addiaccio.

Nelle intercettazioni telefoniche, pagate a spese della collettività, avevano scoperto che i volontari raccoglievano soldi per pagare biglietti ferroviari, nelle indagini bancarie erano addirittura giunti, seguendo la ormai tradizionale modalità delle inchieste antimafia, a scoprire che Andrea Costa aveva il conto bancario in rosso di euro 9,60. E all’inizio, in un turbinio di procure, caccia alla prova per dimostrare di aver individuato una pericolosa organizzazione criminale, un’associazione a delinquere vera e propria, era entrata in campo anche la Direzione Distrettuale Antimafia. Coloro che hanno indagato sono giunti, sembra, anche a ingarbugliarsi fra di loro e quando la Dia si è allontanata dall’inchiesta perché le accuse parevano risibili, c’è stato chi ha voluto perseverare per anni.

Non è la prima volta che si elaborano teoremi simili contro i solidali: ne sanno qualcosa gli attivisti e le attiviste di Linea d’Ombra e di Ospiti in Arrivo, in Friuli Venezia Giulia, ne sanno qualcosa coloro che in Sicilia hanno semplicemente soccorso persone a terra dopo che altri, che subivano intimidazioni altrettanto pesanti le avevano salvate in mare. Ma se le altre indagini a un certo punto avevano portato al non luogo a procedere, verso il Baobab, che ha fatto e fa – con i propri mezzi e con i propri limiti – quello che a Roma dovrebbero garantire e non hanno mai garantito le istituzioni, c’è stato un vero e proprio accanimento, di cui questo processo è l’ultima ciliegina.

Decine di sgomberi dello stabile in via Cupa, nei pressi della Stazione Tiburtina, senza offrire di fatto a uomini, donne e bambini, soprattutto transitanti, nessun tipo di alternativa di alloggio. I volontari e le volontarie di Baobab avevano continuato a lavorare, imperterriti, di fronte alle migliaia di persone che arrivavano in quegli anni e, attorno a loro anche attiviste/i indipendenti che tentavano di aiutare i transitanti. L’inchiesta è giunta come un ennesimo tentativo di criminalizzare la solidarietà. L’annuncio della data della sentenza, fissata dopo due sole udienze, è stato comunicato ad Andrea Costa mentre tornava da una missione dall’Ucraina, dove aveva raccolto altre persone da aiutare, senza distinzione. Si temeva il peggio e invece, con un colpo di scena degno dei migliori legal thriller, il Pm stesso ha chiesto l’assoluzione “in quanto il fatto non sussiste”. Come a dire: “Abbiamo scherzato, non volevamo creare problemi”. La folla che si era assiepata in attesa è prima esplosa poi, mano mano che le notizie giungevano con maggior precisione, nel parlare ha cominciato ad emergere uno sbigottimento e anche una profonda indignazione verso chi ha messo in moto una macchina così pericolosa il cui obiettivo era la solidarietà.

Forse è troppo presto per capire se i tempi sono cambiati. Certo è difficile condannare mentre contemporaneamente, applicando una giusta direttiva europea risalente al 2001, la n 55, si permette a una parte vulnerabile dell’Ucraina invasa di cercare rifugio in Europa. Qualcuno, più avveduto, avrà pensato che discernere il diritto al semplice aiuto, non al traffico di esseri umani, in base al colore della pelle delle persone soccorse poteva risultare indigeribile anche a un palato abituato ad ingoiare di peggio. O forse qualcosa sta cambiando nel profondo; dopo la pandemia e durante una guerra ci si rende sempre più conto che non sono gli immigrati il problema del Paese Italia, ma che in ben altri volti vanno cercate le responsabilità di una crisi profonda.