Pubblichiamo parte della prefazione all’Annuario-doppio 2021\202 di Pressenza, editato per i tipi di Multimage, uscito all’inizio dell’anno e che sarà presentato il 16 Marzo p.v. (ore 16.30) a Palermo nella Biblioteca Centrale della Regione Sicilia, alla quale prenderà parte Pia Figueroa co-direttrice della nostra agenzia internazionale

“Niente sarà più come prima”, questo il refrain che sentivamo ripetere incessantemente dall’inizio dell’esplosione epidemiologica da coronavirus nei talk show televisivi, da dove maître à penser e luminari della scienza, giornalisti e politici, imprenditori e sindacalisti giocavano a far rimbalzare le responsabilità degli effetti del dramma pandemico, convenendo sul fatto che «il modo di produzione economico, così com’è stato fino ad adesso, non è più sostenibile», avendo mostrato le molte falle del sistema. Ma tutti tralasciavano di spiegare quali fossero state le cause che avevano determinato le debolezze per la tenuta del sistema di fronte all’emergenza sanitaria e non hanno mai messo minimamente in dubbio che il problema vero potesse essere il modello stesso di sviluppo.

La questione partiva da lontano, dalla critica al modello universalistico della cura, divenuto, nell’era neoliberista, economicamente “improduttivo”. Il giudizio era incentrato sull’analisi gestionale della sanità, che aveva messo in luce le “diseconomie” del servizio sanitario regionalizzato, per cui il ceto politico aveva puntato sulla totale aziendalizzazione della salute, riducendo al minimo gli standard delle prestazioni mediche necessarie ed avviando un processo di privatizzazione dell’offerta specialistica con la spettacolarizzazione degli interventi sanitari mediante applicativi  di marketing. Una “riforma” del sistema sanitario nazionale, sotto le  forti pressioni lobbistiche, che ha intaccato di fatto la struttura organizzativa della medicina preventiva e di prossimità, così com’era stata concepita alla fine degli anni Settanta.

La logica della mercificazione della salute spiccò il volo definitivamente con l’avvento della c.d. “seconda repubblica”. Una forma di bipolarismo ibrida espressa – indifferentemente sia dalla destra sia dalla sinistra – da un ceto politico di azzeccagarbugli, fatto da portaborse dei vecchi notabili della “prima repubblica” riconvertitisi in ossequianti officianti dei dettami politico-economici imposti dai trattati ordoliberistici europei. Infatti, nell’idolatria dell’economia sociale di mercato aveva trovato le ragioni stesse della sua riproduzione cetuale, segnando l’apogeo divinatorio con l’introduzione del fiscal compact, un dispositivo eretto a norma costituzionale come prius nella scala gerarchica delle fonti giuridiche.

Nell’era del coronavirus – soprattutto nella prima ondata pandemica –  il nostro sistema sanitario, ormai smantellato, ha messo alle strette gli operatori sanitari per l’insufficienza di reparti destinati alle terapie intensive e per la carenza di attrezzature e dispositivi di protezione individuale. Ancor più grave e drammatica è stata la fase in cui, in piena crisi epidemiologica, i medici delle terapie intensive sono stati lasciati in solitudine a dover decidere le priorità da dare ai pazienti infetti, in lotta tra la vita e la morte, per accedere a uno dei pochi ventilatori polmonari in dotazione ai reparti.

Dopo questa ricostruzione dei fatti, ci domandiamo come i signori e le signore dei salotti televisivi, compiacenti della ragionieristica tecnocrazia politica (abile nella quadratura imperativa dei saldi di spesa), abbiano fatto a dimenticare i loro assordanti silenzi o le loro posizioni pubbliche, schierate a sostegno del “pensiero unico” e delle “grandi riforme” di ispirazione neoliberista, e a pontificare sulle virtù taumaturgiche del libero mercato contro il “metadonico assistenzialismo”, contravvenendo ai “principi naturali” di concorrenza. Certo, adesso sono tornati in pompa magna e più convinti di prima, da quando Draghi ha assunto le leve del comando, a sostenere la bontà delle regole dello scambio capitalistico purché protetti dalla governamentalità politico-burocratica europea, come se il malfunzionamento dell’apparato pubblico fosse solo una questione di incompetenza e corruzione.

Sulla base del rinnovato ottimismo in ordine alle lodi decantate in favore dello scientismo positivistico – secondo il pensiero mainstream, in nome di una crescita esponenziale infinita – si vuole far credere che dobbiamo affidarci con fiducia alle risoluzioni tecnologiche ad hoc sperimentate per salvarci dai cataclismi ecologici incombenti, primo fra tutti il surriscaldamento climatico. Fortunatamente, dopo la caduta dei potentati imperiali più reazionari (Trump docet!), possiamo rilevare che, nella comunità scientifica, ben pochi sono rimasti i negazionisti della “questione climatica”. Seppur in modo più o meno temperato, tutti sono disposti oggi ad ammettere che l’emergenza-clima non è più solo “dietro l’angolo”, bensì già presente nelle condizioni attuali del pianeta, i cui gravi effetti si riverberano in concatenazione, in modo inesorabile, sull’intera società globale. La stessa crisi epidemiologica da Covid-19, a detta della scienza critica,  è probabilmente uno dei tanti effetti dell’alterazione dell’equilibrio ecosistemico determinato dal mutamento climatico, dovuto all’emissione nell’atmosfera di CO2  prodotta dall’apparato macchinico della produzione capitalistica, provocando così quell’effetto-serra che minaccia l’ambiente terrestre e, quindi, la stessa esistenza dei suoi abitanti: in questo senso si parla di era indifferentemente definita dell’antropocene o capitalocene.

Insomma, basandosi sul nuovo mantra della transizione ecologica, supportato dallo  “scientismo tecnologico”, si sta mettendo a punto un nuovo paradigma riparatore, nel tentativo di ripristinare in un “tempo ragionevole” le condizioni necessarie per recuperare l’equilibrio ecosistemico perduto e, comunque, al limite del baratro del punto di non ritorno. Non possiamo non richiamare tutta l’ambiguità contenuta in questa c.d. “transizione”, secondo cui necessiterebbe di una ragionevole temporalità per consentire la completa conversione ecologica dell’apparato produttivo, poiché l’attuale potenza energetica ottenibile dalle fonti rinnovabili non sarebbe in grado di soddisfare, nel breve periodo, la domanda di energia richiesta nelle aree più industrializzate. Cosicché, oltre alla conversione delle vecchie centrali termoelettriche – da carbone a gas, con la riduzione del 30% di emissione di anidride carbonica – si sta seriamente pensando al rilancio del tanto sbandierato “nucleare di nuova generazione”, al fine di garantire il fabbisogno energetico del sistema economico-sociale dominante e contrastare parimenti l’effetto-serra.