Le riforme del Csm e dell’ordinamento giudiziario presentate insieme per dare un assetto più organico alla magistratura, sono solo in fase di proposta approvata all’unanimità dal Consiglio dei ministri. I partiti della maggioranza si sono riservati di apportarvi le proprie modifiche in sede di commissione e di aula, pertanto ora possiamo ragionare solo su delle proposte che potrebbero essere in seguito modificate o stravolte.

Il Csm tornerebbe ad essere composto da trenta membri come era una volta, eletti con il sistema maggioritario binominale, con un temperamento proporzionale di recupero dei sei migliori terzi, ciò per evitare che le due maggiori correnti si aggiudichino insieme tutti e venti i seggi riservati ai magistrati, tagliando fuori i candidati delle altre correnti. Su questa riforma non c’è molto da dire tranne che è stata ideata con la vana speranza di arginare lo strapotere delle correnti in seno al Csm, specie nella fase di nomina dei vertici giudiziari di ogni grado o ufficio. 

Vana speranza perché il Csm rimane il vero centro del potere in sede di autogoverno: comunque vengano eletti, i magistrati troveranno poi sempre i modi e i termini di accordi interni, anche perché rimarranno inquadrati nelle rispettiva correnti di riferimento in seno all’Associazione nazionale magistrati (Anm) e, in base a quella appartenenza correntizia di provenienza, successivamente si alleeranno in seno al Csm. 

Sono pertanto d’accordo con quanto disse, in occasione di un convegno, il compianto giurista Giuliano Vassalli, allorquando considerava – se non cambia il costume dei magistrati – l’inutilità delle leggi per il Csm: o si recupera la cultura dell’indipendenza (interna dalle correnti o esterna dalla politica) o tutto rimarrà come prima.

La proposta di riforma dell’ordinamento giudiziario (cioè delle norme che regolano lo status dei magistrati dall’inizio alla fine, passando per le promozioni e gli incarichi direttivi) prevede due modifiche di fondo.

La prima è la separazione posticipata delle carriere perché impone ai magistrati di scegliere  irrevocabilmente entro cinque anni se vogliono fare i pubblici ministeri o i giudici. C’è comunque anche la proposta referendaria che imporrebbe di anticipare questa scelta già all’inizio dell’ingresso in magistratura.

Quella della separazione delle carriere è un tormentone che si trascina da anni e, comunque, viene sciolto o con la proposta-Cartabia o con la vittoria del quesito referendario. Va ricordato, altresì, che in quasi tutti gli ordinamenti giudiziari europei (e del resto del mondo) le carriere sono sempre separate e la giustizia funziona lo stesso.

La seconda modifica è il divieto, per i magistrati che si candidano o al parlamento o nelle altre amministrazioni regionali o comunali, di rientrare in magistratura. Questo divieto è poi esteso anche ai magistrati che vanno fuori ruolo per incarichi ministeriali. I magistrati, eletti o non eletti, rimangono però dentro l’amministrazione dello Stato con altro incarico mantenendo anche la stessa retribuzione. Si vuole così risolvere il problema delle “porte girevoli” ma lo si fa in modo drastico estendendolo ai magistrati che sono chiamati a responsabilità tecnico-giuridiche nei ministeri e non vedo che incompatibilità ci possa essere con la funzione giurisdizionale dopo essere stati in una direzione ministeriale o in una commissione parlamentare.

Giusto, invece, separare nettamente l’attività politica da quella giurisdizionale, anche perché chi partecipa ad una competizione elettorale fa una scelta di campo e non sembra essere più imparziale e indipendente, specie se poi, dopo l’elezione andata male rientra a fare il giudice nella stessa città o anche nella stessa regione che lo ha “bocciato”. 

Oggi i magistrati in parlamento si contano sulla punta di una mano mentre ci sono molti assessori o consiglieri regionali o comunali ed è un bene che non ci sia più confusione, per la tranquillità dei cittadini e la credibilità della magistratura.