La Terra è un ecosistema globale dove interagiscono la società umana, gli organismi viventi, la materia non vivente e l’energia che ci viene dal Sole. Si tratta di un ecosistema isolato, in equilibrio dinamico, autosufficiente, ma fragile. Negli ultimi 70 anni sul pianeta Terra è aumentato fortemente il numero di abitanti (da 2,5 a quasi 8 miliardi) e, con il progresso della scienza e della tecnologia, l’attività umana si è talmente sviluppata da rischiare di portare fuori equilibrio l’ecosistema Terra.

La transizione energetica

Oggi, nel mondo, consumiamo, ogni secondo, circa 250 tonnellate di carbone, 1000 barili di petrolio e 105.000 metri cubi di gas, producendo, sempre ogni secondo, circa 1000 tonnellate di anidride carbonica, CO2.

Nel dicembre 2015, dopo vent’anni di discussioni, alla COP21 di Parigi i 196 Paesi che avevano ratificato la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici hanno elaborato un accordo, noto come «Accordo di Parigi», con il quale si riconosce nel cambiamento climatico il pericolo più grave per l’umanità. È necessario, quindi, entro il 2050 abbandonare l’uso dei combustibili fossili, dai quali oggi otteniamo gran parte dell’energia (circa l’80%), e sviluppare le energie rinnovabili fornite dal Sole, dal vento e dalla pioggia. Queste energie primarie non producono CO2 e neppure inquinamento; per di più, forniscono direttamente energia elettrica, una forma “nobile” di energia, molto più utile del calore generato dai combustibili fossili.

Gli scienziati hanno dimostrato che questa transizione si può fare e che, oltre ad eliminare l’inquinamento e a frenare il cambiamento climatico, è vantaggiosa per l’economia e per risolvere il problema della disoccupazione. Uno studio dettagliato condotto sulla situazione di vari Paesi ha calcolato che l’Italia può ottenere tutta l’energia necessaria nel 2050 da fotovoltaico (56,7%), eolico (26,3%), solare a concentrazione (11,3%), idroelettrico (4,9%) e geotermico (0,6). Lo stesso studio ha anche valutato che le nuove infrastrutture occuperanno non più dello 0,26% del territorio e che, a fronte dei 150 mila posti di lavoro persi nel settore dei combustibili fossili, si creeranno 390 mila nuovi posti per la costruzione degli impianti e altri 530 mila per il funzionamento.

La transizione energetica, però, è fortemente ostacolata dalla lobby dei combustibili fossili. L’AD di ENI, Claudio Descalzi, ha definito le rinnovabili “tecnologie non mature”. Forse, non sa che fotovoltaico ed eolico, oltre a non generare né CO2 né sostanze inquinanti, forniscono energia elettrica a costi più bassi delle centrali termiche a carbone e a gas .

L’Unione Europea ha recentemente lanciato un importante piano, Next Generation EU. Si tratta di una strategia articolata per azzerare le emissioni di CO2 entro il 2050, ridurre l’inquinamento, proteggere il pianeta e far sì che la transizione energetica sia socialmente giusta e inclusiva. L’Italia non deve perdere questa occasione che, fra l’altro, può far emergere le grandi potenzialità della sua industria manifatturiera. Purtroppo, il Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC) è stato formulato dal nostro Governo in modo che i combustibili fossili rimangano la fonte prevalente di energia non solo nel 2030, ma anche fino al 2040. È evidente che nella stesura di questo piano energetico ci sono state forti pressioni da parte della lobby dei combustibili fossili.

La COP26 di Glasgow

Le conferenze sul cambiamento climatico, come la COP26 svoltasi a Glasgow, sono occasioni dove si discute sulla possibilità/opportunità/conseguenze della transizione energetica, auspicata dalla maggioranza dei Paesi piccoli e poveri, ma fortemente ostacolata da un certo numero di Paesi grandi, ricchi e/o dotati di notevoli giacimenti di combustibili fossili: Stati Uniti, alcuni Paesi del Medio Oriente, Russia, India, Cina, Australia e Polonia. A questi si può aggiungere la Francia, che ha la pretesa di far riconoscere come energia “verde” quella prodotta dalle sue vecchie centrali nucleari. Nelle COP, oltre alle delegazioni degli stati che aderiscono all’ONU, sono presenti quali osservatori, spesso molto influenti, altre parti interessate come le grandi industrie automobilistiche, le multinazionali che producono e commercializzano i combustibili fossili e i grandi gruppi finanziari. Notizie di stampa hanno riportato che alla CO26 di Glasgow la delegazione più numerosa (514 delegati!) era quella dei rappresentanti delle energie da fossili.

Sui risultati della conferenza COP26 di Glasgow sono stati espressi giudizi sia positivi che negativi, forse tutti esagerati se si considera cosa sono, in realtà, queste COP: un tentativo di far discutere democraticamente sul cambiamento climatico chi è più interessato al problema (le Parti, appunto). Qualcuno ha definito le COP come una specie di assemblea di condominio della nostra Casa Comune, il pianeta Terra. Un condominio molto particolare e complicato, non solo perché i condomini sono molto numerosi (le 196 nazioni aderenti all’ONU), ma ancor più perché sono così diversi fra loro: grandi come la Cina, piccoli come l’isola Barbados, ricchi come il Qatar, poveri come il Burundi. Si tratta, quindi, di una assemblea dove non ha senso votare perché non si saprebbe su che criteri definire una maggioranza. Le decisioni, in pratica non vincolanti, vengono prese con il metodo del consenso, ricercando compromessi. Le varie nazioni manifestano buone intenzioni, promettono contributi volontari volti a contrastare il cambiamento climatico, prendono impegni, ma non è certo che li manterranno.

Il risultato più significativo della COP26 è stato l’accordo per limitare il riscaldamento globale sotto 1,5°C rispetto ai livelli pre-industriali. Si tratta di un obiettivo più ambizioso del limite di 2°C dell’Accordo di Parigi del 2015, ma quasi impossibile da raggiungere perché, già oggi, l’aumento è +1,1°C e alcune analisi stimano che si arriverà a 1,8°C o, addirittura, a 2,1°C. È anche importante che si siano stabiliti criteri di trasparenza riguardo i modi in cui, entro il 2024, i vari stati dovranno documentare i progressi fatti nell’attuazione dei contributi volontari dichiarati per il raggiungimento dell’obiettivo. Nel documento finale della COP26 compare decarbonizzazione, parola che non si trova nell’Accordo di Parigi. Sono state approvate le regole del mercato globale della CO2 che riconosce la possibilità per un paese di compensare le sue emissioni con l’impegno di contribuire a ridurre le emissioni di un altro paese.

C’è un invito a tutti gli stati firmatari di tagliare del 45% le emissioni di anidride carbonica nel 2030 rispetto al 2010 e di raggiungere zero emissioni nette intorno alla metà del secolo. Molte nazioni hanno assunto l’impegno ad accelerare l’istallazione delle fonti energetiche rinnovabili. Più di 30 stati, fra cui l’Italia, e alcune istituzioni finanziarie si sono accordate per eliminare i sussidi alle fonti fossili, reindirizzando gli investimenti sulle energie rinnovabili. 130 stati, inclusa l’Italia, e numerose istituzioni finanziarie hanno assunto l’impegno di lavorare per arrestare ed invertire la perdita di foreste e il degrado del suolo entro il 2030. 23 paesi si sono impegnati a dismettere il carbone per la produzione di energia elettrica, ma nel documento finale, su richiesta dell’India, le parole phase out (eliminazione) sono state sostituite da phase down (diminuzione). 109 nazioni, fra cui l’Italia, hanno riconosciuto la pericolosità del metano come gas serra e si sono impegnate a ridurne le emissioni del 30% entro il 2030. Una trentina di paesi e 11 produttori di auto (ma non ci sono né l’Italia né Stellantis) hanno preso l’impegno di vendere solo auto e furgoni a zero emissioni nei paesi più sviluppati entro il 2035 e nel resto del mondo entro il 2040. Si è constatato che l’obiettivo di raccogliere, entro il 2020, 100 miliardi di dollari annui per supportare i paesi più vulnerabili non è stato ancora raggiunto, ma si spera che lo sarà entro il 2023 grazie all’intervento di istituzioni finanziarie.

A margine della conferenza, ci sono stati numerosi colloqui bilaterali per instaurare collaborazioni; ad esempio, quasi in chiusura, Cina e Stati Uniti hanno raggiunto un accordo per lavorare insieme su tutti i dossier che riguardano il clima, dalle rinnovabili alla tutela degli ecosistemi.

Questa rapida cronaca di quanto è accaduto alla COP26 ci dice che non si può parlare né di successo né di fallimento. Bisogna riconoscere che si sono fatti progressi forse impensabili fino a qualche anno fa. Purtroppo, però, ancora insufficienti.