Conosco Giulio Di Meo da diversi anni, ho apprezzato il suo lavoro di fotografo sia attraverso le sue opere che vedendolo all’opera, sul campo, per strada. È davvero impegnatissimo, da poco è pure diventato padre. Finalmente riesco a intervistarlo.

Giulio, raccontaci le tue origini.

Sono cresciuto a Ruviano, un piccolo paese di 2000 anime situato nell’Alto Casertano. Già da adolescente avevo la passione per i viaggi, alla quale si è presto unita quella per la fotografia, trasmessami da mio padre. Dall’unione, abbastanza naturale, tra queste due passioni e un forte interesse per il sociale viene fuori il mio percorso professionale ma soprattutto di vita. Da circa ventanni faccio il fotografo. Da subito mi sono orientato verso il reportage e la fotografia sociale. Non ho mai lavorato per agenzie, né per giornali, e per scelta personale non ho mai partecipato a premi e concorsi. La base della mia professione è sempre stata l’aspetto didattico: è grazie ai corsi e ai workshop di fotografia sociale, di storytelling, e di street photography che sono riuscito a vivere delle mie passioni e a portare avanti i miei progetti fotografici in maniera indipendente. Viste le difficoltà di questo settore non è poco, e mi reputo una persona estremamente fortunata.

Che cos’è la fotografia sociale?

Io dico sempre che questa definizione è un po’ una forzatura, perché in qualche modo tutta la fotografia racconta qualcosa della nostra società. Ho sempre creduto nella fotografia come strumento per raccontare storie che non trovano facilmente voce sui canali mainstream, per avvicinare persone a tematiche lontane o sconosciute; ma, considerando una certa difficoltà negli ultimi decenni a sensibilizzare, mi piace utilizzare l’aggettivo “sociale”, perché la mia fotografia si lega anche ad azioni concrete e tangibili. Ogni mio progetto personale è, infatti, collegato a campagne e raccolte fondi per sostenere progetti – spesso relativi all’ambito educativo – presso le realtà che documento. Sapere che le mie immagini possono contribuire a pagare qualche retta universitaria a figli di contadini brasiliani, o a sostenere un centro di documentazione per la ricerca dei desaparecidos saharawi, o ancora a supportare le attività di un centro educativo di una favela brasiliana, credo dia un significato e una profondità diversa alle mie foto e al mio lavoro. Le immagini del mio ultimo progetto e libro “Anticorpi Bolognesi” sono servite non solo a documentare questo particolare momento storico, ma anche a comprare libri e materiale scolastico a qualche ragazzo in difficoltà, donare un pasto caldo ai senza fissa dimora, a garantire la spesa per qualche famiglia bisognosa. È questa la “mia fotografia sociale”: una fotografia che prende posizione, che prova ad informare e sensibilizzare, che non si limita a chiedere un cambiamento, ma, nel suo piccolo, prova a metterlo in atto con gesti concreti.

In quali realtà del mondo ti sei più immerso?

Da buon terrone sento più vicine le realtà del Sud del mondo. Sono stato tante volte in Brasile, sono e mi sento parte della grande comunità del Movimento dei Sem Terra, così come sono molto legato alla resistenza dignitosa del popolo Saharawi, dal momento che più e più volte mi sono recato nei loro campi, nel deserto più duro, e grazie alla ONG Rio de Oro io e la mia famiglia abbiamo ospitato più volte una bimba saharawi con difficoltà. Allo stesso modo sento assai vicino il popolo cubano considerato il fatto che da vent’anni collaboro con loro. Da un paio d’anni a questa parte è tutto bloccato, ma conto di riprendere questi rapporti al più presto.

È sempre delicato far foto, ancor più in queste condizioni…

Sono tante le situazioni ad essere delicate. Dal canto mio, ho sempre evitato quelle più complicate come guerre e conflitti; certo, più e più volte mi sono confrontato con la povertà, il disagio, e non è mai qualcosa di semplice. Ciò che è necessario è aver cura, nutrire il massimo rispetto per le persone che ci troviamo di fronte. Bisogna in ogni occasione essere in grado di stabilire unempatia con chi è dall’altra parte dell’obiettivo, far capire che il nostro interesse è per la persona, per la storia, per un fine che non si limita alla sola documentazione, ma si coniuga piuttosto con la speranza di favorire una qualche forma di cambiamento.

E poi tieni dei corsi, organizzi dei workshop.

Sì, ed è ciò che, insieme all’insegnamento – sono insegnante di sostengo part-time alle medie – mi dà da vivere. Da quasi vent’anni organizzo corsi e workshop di reportage e di street photography, in Italia e all’estero, oltre a laboratori per bambini, adolescenti, immigrati, e disabili per promuovere la fotografia come strumento di espressione e integrazione. Collaboro con diverse associazioni e ONG, in particolar modo con lArci e la sua ONG Arcs Culture Solidali, con la quale dal 2007 organizziamo workshop di fotografia sociale in diverse realtà del Sud del mondo (Argentina, Bolivia, Brasile, Camerun, Colombia, Cuba, Guatemala, Saharawi, Senegal). Ogni anno dal 2007 – escludendo gli ultimi due – ho il piacere di accompagnare dall’Italia semplici appassionati di fotografia o professionisti a conoscere i contadini del movimento dei Sem Terra in Brasile, condividendo con loro la quotidianità della loro vita e delle loro lotte. Ho organizzato e tenuto, sempre in collaborazione con Arci, laboratori sui progetti nati dai beni confiscati alla mafia in diverse regioni italiane, così come diversi laboratori con persone diversamente abili. In questi contesti e in queste cornici, la fotografia diventa uno strumento di socializzazione, integrazione e condivisione che ha delle ottime potenzialità non ancora del tutto sfruttate.

Quando hai iniziato cerano ancora i rullini…

È cambiato tutto, è unaltra fotografia. Scherzando, mi piace dire che avrebbero dovuto cambiarle anche il nome. Prima partivi col tuo zainetto pieno di rullini, stavi via un mese, tornavi, aspettavi un altro mese prima di vedere i provini, e cera una grande magia in quell’attesa. Riscoprivi se e cosa eri riuscito a cogliere, in quel momento dal quale era ormai passato molto tempo. Adesso scatti e vedi, e quel tipo di emozione non c’è più.

Ma è tutto il mondo dell’informazione ad essere completamente cambiato, più veloce ma anche più superficiale. È cambiata anche la modalità di utilizzo e fruizione dei reportage stessi: si scorre, si scrolla e via, mentre il nostro obiettivo è quello di portare il “lettore” in profondità, di farlo immergere in una storia. Ciononostante, questi nuovi strumenti di informazione e condivisione hanno delle enormi potenzialità, sta a noi capire e trovare la strada giusta per impiegarli al meglio in base al nostro linguaggio. In fondo sono convinto che di questo tipo di fotografia ci sarà sempre bisogno. Nulla più di un’immagine ha il potere di fermare un momento e sedimentarlo nella nostra mente; nessun linguaggio più della fotografia ha, a mio avviso, la capacità di portarci dentro le storie e di farci riflettere, emozionare, indignare.

E poi lavori anche come photoeditor della rivista Witness Journal?

Sì, dal 2016 sono presidente di Witness Journal, associazione che nasce dall’esperienza dell’omonima rivista che portiamo avanti dal 2007. Si tratta della prima rivista di fotogiornalismo online in Italia, e ad oggi abbiamo pubblicato 125 numeri con oltre 1000 reportage che hanno trattato le tematiche più disparate. È una rivista gratuita, indipendente e senza pubblicità, che continua ad esistere grazie al lavoro volontario di tanti di noi e al supporto di quasi 500 soci. Nel 2016 abbiamo poi fondato l’associazione per promuovere con ulteriore forza il linguaggio della fotografia documentaria e la formazione in ambito visuale.

Passi molto tempo davanti al computer?

Si, in effetti predico bene e razzolo male. Nei miei corsi dico che il fotografo è quello che sta per strada, tra la gente e poi spesso mi trovo a passare giornate intere davanti al monitor. Impiego ore a rispondere a mail, messaggi, chat, e a sistemare i lavori prodotti durante i tanti workshop che tengo.

Hai comunque scelto Bologna dove vivere, una città con una realtà sociale che potremmo dire privilegiata”…

Bologna è comoda, è al centro dItalia, quindi anche da un punto di vista della mobilità e dell’agevolezza negli spostamenti si trova in una posizione davvero invidiabile. E poi, certo, anche da un punto di vista sociale e culturale è stata e rimane, pur con qualche difficoltà, un’isola felice.

Ma sei in fondo un immigrato anche tu, senti vicina questa tematica…

Molto, tant’è che nei miei laboratori cito spesso il testo di John Berger Il settimo uomo” dove si parla delle migrazioni italiane, che poco avevano di diverso da quelle attuali; cambiano i paesi di partenza, ma le situazioni e le dinamiche sono assai simili. Anche io, pur con tutte le debite proporzioni, ho vissuto lo sradicamento. Quelle tematiche mi interessano particolarmente. Torno almeno due o tre volte all’anno al mio paese, dove ho i genitori, dove tutti ci conosciamo e dove da anni con alcuni amici promuoviamo iniziative culturali.

Nelle tue foto lessere umano è centrale: come hai vissuto questi paesaggi, durante la pandemia, svuotati dagli esseri umani?

Con paura, e un po’ di tristezza. Girare per le strade vuote di Bologna, soprattutto nelle prime settimane di lockdown, era impressionante. Io adoro raccontare attraverso le persone, mi sembra che le foto che ne sono prive manchino di qualcosa. Mi piace raccontare lumanità delle persone, mi piace provare a veicolare emozioni testimoniando quelle azioni che ci distinguono come “esseri umani”. Anche nel periodo più duro dell’emergenza sanitaria e del lockdown è stato tutto un nascere di iniziative di solidarietà e di aiuto reciproco; anche nel momento più buio ci sono stati dei fortissimi punti di luce.

Ecco alcuni link utili a conoscere il lavoro di Giulio Di Meo:

Campagna: Viva Cuba Viva

https://www.giuliodimeo.it/home/campagna-viva-cuba-viva/

Campagna: Plantar solidariedade

https://www.giuliodimeo.it/home/plantarsolidariedade/

Libro: Pig Iron – Il ferro dei porci

https://www.giuliodimeo.it/home/prodotto/pig-iron-il-ferro-dei-porci/

Libro: Sem Terra – 30 anni di storia, 30 anni di volti

https://www.giuliodimeo.it/home/prodotto/libro-sem-terra-30-anni-di-storia-30-anni-di-volti-2/

Libro: Il Deserto Intorno

https://www.giuliodimeo.it/home/prodotto/libro-il-deserto-intorno/

Libro: Anticorpi Bolognesi

https://www.giuliodimeo.it/home/prodotto/libro-anticorpi-bolognesi/

WJ associazione

https://witnessjournal.com/

WJ rivista

http://witnessjournal.com/archivio-magazine/