Insieme alle vicende della pandemia e della variante omicron, ciò che maggiormente agita le notti (si fa per dire) dei nostri politici pare siano le grandi manovre in vista dell’elezione, ormai vicina, del nuovo presidente della Repubblica. 

Mentre la “sinistra” (si fa sempre per dire) pare abbastanza sulle sue, in campo avverso è stato Giorgetti  a rompere il ghiaccio con una imprevedibile promozione di Mario Draghi alle stanze del Quirinale, in una logica che egli stesso ha definito di “semi presidenzialismo”. Malgrado la proposta sia inusuale (e incostituzionale), le reazioni sono state blande, come si trattasse di una semplice boutade, a cui, per altro, lo stesso ministro leghista si è guardato bene di dare un seguito. Si sa, d’altra parte, che in politica è cosa che ci può stare tirare il sasso e nascondere la mano, in attesa di capire cosa succede. Fatto sta che il nome di Draghi, al momento, fa ancora parte della lista dei papabili alla poltrona presidenziale.

La destra ufficiale ha nel frattempo scelto come suo uomo il solito, e prevedibile, Silvio Berlusconi, in quella che, per la verità, potrebbe apparire come una semplice candidatura di bandiera. Di quelle, per capirci, che servono per le prime tornate di voto, in attesa di convergere verso un nome di più larghe  intese. A tal proposito, non credo sia un caso che il PD abbia fatto sapere che bisogna accordarsi su un nome il più possibile condiviso. 

Tutto nella norma dunque? Non direi! Mi pare infatti che ragionare sulla base di vecchi copioni potrebbe essere, nella circostanza, molto fuorviante. Intanto  il Parlamento, che costituisce la base dei grandi elettori del presidente, non è mai stato in passato così imprevedibile nelle sue scelte come quello attuale. Si veda, giusto per fare un esempio, il grande ribaltone sulla legge Zan, a dimostrazione che il voto segreto (e quello per eleggere il presidente lo è) a volte può fare miracoli! Alla base di una tale incertezza stanno precise ragioni. Da una parte la dubbia collocazione di alcune forze politiche come “Italia Viva”, dall’altra la presenza di un “gruppo misto”, in pratica di “cani sciolti”, che non è mai stato così determinante. Insomma nulla si può prevedere, e la candidatura di Silvio Berlusconi potrebbe essere tutt’altro che di facciata, e magari preludere ad un vero e proprio colpo di mano.

Ora è bene precisare che “il toto presidente” è gioco che non ci appassiona. Ma i nomi che, in un modo o in un altro, vengono fatti dalla destra sono segnali politici che non vanno ignorati. Proporre, anche solo di sfuggita, un uomo forte come Draghi, come una sorta di uomo del destino; oppure candidare un personaggio come Berlusconi che, vicende giudiziarie a parte (e sulle quali non vogliamo neppure entrare), è pur sempre, nel “bene” (si fa sempre per dire) o nel male, una figura centrale della vita politica italiana degli ultimi trent’anni, sono tutte ipotesi che fanno pensare a scelte quantomeno del tutto inappropriate. 

L’Italia, è bene ricordarlo, è una Repubblica parlamentare, in cui il potere esecutivo spetta al governo sotto il controllo del Parlamento, e in cui il Presidente della Repubblica si pone come figura di garanzia dell’unità delle istituzioni e dello Stato. Figure di uomini forti, o di discussi, e comunque divisivi, leader storici della politica, non sono compatibili con l’impalcatura istituzionale, così come disegnata dalla nostra Costituzione. Ma quelle della destra non sono delle sviste, quanto piuttosto logiche conseguenze di una chiara opzione verso una Repubblica Presidenziale. Una preferenza che, in verità, non è stata mai negata dagli interessati, ma solo meno insistentemente ribadita in tempi recenti, quando la scelta sembra essere quella di puntare tutto sulla guida del governo, dando fede ai sondaggi elettorali, che pare li vedano in vantaggio. In ogni caso, ancora una volta si mostrano evidenti segnali di come le scelte politiche, e prima ancora i presupposti culturali e ideali della destra italiana, siano del tutto incompatibili con la lettera e lo spirito della nostra Costituzione. 

Probabilmente né Draghi, né Berlusconi saliranno al Quirinale (almeno me lo auguro), ma se la destra dovesse malauguratamente vincere le prossime elezioni è certo che ci ritroveremmo con un governo fortemente autoritario, assolutamente impermeabile alle politiche di accoglienza e alle lotte per i diritti, e certamente orientato verso riforme sciagurate come la netta riduzione delle tasse per i più abbienti e conseguente taglio della spesa sociale a favore di ceti disagiati, lavoratori e famiglie. E’ probabile che anche allora i leader della destra, come fanno anche adesso con la Meloni in testa, e a dispetto di tutte le loro scelte, continueranno ad urlare “Libertà! Libertà!” e a invocare i sacri valori di quella Costituzione, che nelle intenzioni e nei fatti continuano a tradire, e che forse non hanno mai neppure letto.

Non credo tuttavia, che la possibilità di impedire simili terribili scenari stia in una difesa puramente formale o “filologica” dei valori costituzionali, affidata alla discussione e al tentativo del semplice convincimento. La Costituzione in fondo è solo una dichiarazione d’intenti che rispecchia valori e aspirazioni fissati sulla carta da donne e uomini, forgiati dalla lotta antifascista, più di settanta anni fa. Arroccarsi sulla difensiva non serve a molto. Se noi oggi vogliamo farla rivivere, dobbiamo ri-visitarla alla luce del presente, e se necessario “forzarne” i contenuti in senso popolare, democratico, egualitario, libertario e “di liberazione”. Ma per fare questo c’è solo una via per lavoratori e ceti subalterni: Riprendersi la piazza e ripartire!