Quando si parla di Resistenza mi vengono sempre in mente i racconti di mio zio, Padre Marco Malagola, un frate francescano che ha vissuto una vita intensissima con spirito di pace e serenità. Ecco una sua testimonianza su quegli anni, riportata nella pubblicazione “L’impegno” del 2 dicembre 2006, a cura dell’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli.

Gianfranco Malagola.

Sono un francescano, ormai alle soglie degli ottant’anni. Vorrei scrivere qualcosa di quegli anni turbolenti che hanno funestato e insanguinato la Valsesia, dall’armistizio dell’8 settembre ’43 al 25 aprile ’45. Di quel periodo si affolla nella mia mente un fiume di ricordi.

Con altri miei confratelli, studenti di liceo, vivevo nel convento Sant’Antonio da Padova a Varallo. In comunità eravamo sufficientemente al corrente di quanto accadeva nella regione, grazie al nostro professore di filosofia, padre Giulio Mietta, osservatore attento del clima di conflitto che si era creato dopo quel tragico e disastroso armistizio.

Ricordo che la situazione andava di giorno in giorno terribilmente peggiorando, coinvolgendo tutti i settori della vita pubblica, con pesanti ripercussioni sulla popolazione.

Le condizioni alimentari erano gravi. Le distribuzioni di cibo venivano fatte con frequenze ridotte e a volte ad intervalli di qualche settimana. Il quadro era desolante; la carenza di generi alimentari e il razionamento delle derrate fondamentali non garantivano pane a sufficienza. I più colpiti erano i bambini e gli anziani. Noi frati andavamo questuando nei paesi circostanti presso contadini, affidandoci alla generosità della gente: qualche patata, castagne, mele, rape, e così via. Si tirava realmente la cinghia. Si imparava e ci si educava ad aver bisogno di poco e a semplificare la vita. Le difficoltà di movimento e la penuria dei mezzi di trasporto acuivano le difficoltà. Poi vi erano posti di blocco e coprifuoco, che limitavano la libertà di movimento, con gravi danni in caso di emergenze di malattia o di ricoveri urgenti nelle strutture sanitarie.

Tensione, paura e sfiducia nel domani gravavano nell’aria. Ogni giorno giungevano notizie di violenze, imboscate, scontri armati con morti e feriti, incendi mirati di case e di villaggi interi per rappresaglia. Rammento di aver assistito, dalla finestra della mia cella, alla macabra scena di una fucilazione simulata sul piazzale delle scuole della città: esattamente come un tiro al bersaglio e il bersaglio erano prigionieri partigiani. Una vera palestra del terrore.

Il convento era diventato rifugio e crocevia di incontri: si trattava per lo più di prigionieri alleati fuggiti dai campi di concentramento della pianura padana, di militari italiani che, sorpresi improvvisamente dall’annuncio dell’armistizio, abbandonavano alla disperata le caserme con mezzi di fortuna e in travestimenti borghesi, raggiungevano i paesi d’origine o prendevano la via della montagna per sfuggire all’internamento forzato in Germania. Erano sbandati che bussavano alla porta del convento a tutte le ore del giorno, evitando la pericolosità della sera e della notte, normalmente sottoposte a severo coprifuoco. Si tenevano lontani dalle rotabili più battute e approdavano a Varallo, attraverso la fitta boscaglia circostante, stralunati dalle fatiche e dalle emozioni. Era un vivere a rischio. Noi ci davamo da fare in tutti i modi per alleviare sofferenze e disagi, per rincuorare e offrire speranza.

Non mancavano, com’era da aspettarsi, le incursioni improvvise dei nazifascisti alla ricerca di presunti fuggiaschi; le forti e insistenti scampanellate alla porta del convento segnalavano il loro arrivo. Era il provvidenziale campanello d’allarme che ci permetteva di nascondere tutto ciò che c’era da nascondere e far finta di niente. Esigevano con autorità l’incontro con il superiore del convento, un frate alto e grosso con il sigaro in bocca sempre acceso, e lì iniziava il serrato balletto degli interrogatori investigativi facilmente immaginabili. Grazie a Dio ne siamo sempre usciti fortunatamente indenni.

Ma il nostro contributo andava ben oltre. Non ci si limitava alla semplice francescana accoglienza. I nostri nuovi amici, fuggiaschi e clandestini, non si trattenevano in convento più di tanto; sarebbe stato un rischio troppo pericoloso per tutti quanti. Il loro intento era uno solo: poter raggiungere al più presto la Svizzera valicando il Monte Rosa. Ma come e con chi realizzare il loro sogno se non con l’apporto del nostro sostegno e della nostra guida? Si trattava allora di organizzare la marcia di accompagnamento studiandone attentamente i percorsi. Si partiva scaglionati in piccoli gruppi, seguendo i sentieri di montagna meno battuti, che erano logicamente i più malagevoli; ciò significava allungare di molto il percorso programmato. Si procedeva parlando quel tanto che era necessario, forse anche perché le nostre conoscenze linguistiche erano veramente scarse.

Diverse le nazionalità dei nostri occasionali compagni: c’erano inglesi, americani, australiani, georgiani, russi e sì, ricordo benissimo, c’erano anche ebrei. Non mancavamo di portare con noi – avvantaggiati dalle profonde e quasi invisibili tasche del saio – qualche dizionario tascabile inglese-italiano come indispensabile ausilio per meglio intenderci e scambiarci informazioni. Ci raccontavano del loro paese, delle loro famiglie, storie personali. Lontani dalle loro case, era un conforto sentirsi accompagnati e scortati verso la libertà da giovani fraticelli, quasi ragazzi, con i quali fraternizzare e condividere sogni e speranze. Ci affidavano indirizzi dei loro cari perché noi provvedessimo a inoltrare e far loro sapere che erano vivi. Giunti a un punto concordato del percorso, li consegnavamo a guide del posto, che a loro volta li affidavano a una nota guida alpina valsesiana, Leo Colombo, che li accompagnava, credo attraverso Macugnaga e il passo del Moro, fino al porto sospirato e sicuro del loro desiderio: la Svizzera.

Commovente il momento dell’addio. Ci si abbracciava da fratelli, gustando il sapore e la bellezza della fraternità umana e del suo mistero; che non è utopia, ma qualcosa da scoprire e costruire giorno per giorno per un mondo senza guerre e divisioni. Ma per loro la strada era ancora molto lunga; li vedevamo dileguarsi, in fila indiana, fino a scomparire nel fitto boscoso della montagna.

Dopo queste rischiose operazioni riprendevamo la strada del ritorno, soddisfatti e ricchi di umanità per l’aiuto offerto a quei poveri sfortunati amici. Si ripercorreva buona parte del percorso d’andata, ma giunti a un certo punto ci si immetteva sulla strada provinciale, meno stancante e più facilmente percorribile.

Ricordo che una volta incorremmo in un rischioso incontro. Avvistammo da lontano, giù nel fondovalle, tre camionette militari tedesche che salivano nella nostra direzione; le avremmo quindi necessariamente incrociate. Ci fu un attimo di panico generale. Non avemmo il tempo di scomparire nella boscaglia a fianco. Dopo pochi minuti trovammo le camionette davanti a noi. Si arrestarono di colpo. Scesero tre soldati. Capimmo che si trattava di SS. Ci chiesero dove eravamo diretti. Rispondemmo che tornavamo da una gita in montagna ed eravamo diretti al nostro convento di Varallo. Ci chiesero altre cose, tra cui se avevamo visto o incontrato persone lungo la strada. Rispondemmo decisamente di no. Ricordo che uno di noi, il più matricolato, non si peritò di offrire loro una manciata di caldarroste… Per farla breve, la passammo liscia. Se ci avessero perquisiti per bene saremmo finiti tutti al “fresco” con quelle tasche piene di materiale compromettente.

…..

La Resistenza italiana, che iniziò spontanea contro l’occupazione nazista, ritengo che fosse in minima parte una guerra civile tra italiani a causa dell’esistenza della Repubblica di Salò. Si percepiva la Resistenza non tanto come lotta contro il fascismo, ma come dovere morale e politico. In realtà fu una sollevazione di popolo, un autentico movimento popolare, anche se non perfettamente organizzato, il che si comprende benissimo quando si è costretti a vivere sotto pesante occupazione. Si trattava di un movimento popolare spontaneo, alla base del quale c’era una grande volontà di liberazione. Tutti erano protesi verso il raggiungimento di una vita libera e pacifica, dopo anni di guerra mondiale che aveva ridotto l’Europa a un cumulo di macerie.

Testo integrale.