Proprio alla vigilia di Ferragosto, fonti del governo tedesco, cui è stato dato eco sulla stampa, hanno riferito in merito alla fiducia delle autorità tedesche nel fatto che «ogni forma di cooperazione regionale nei Balcani Occidentali è utile». «Al contempo, è importante che tale cooperazione si mantenga aperta a tutti i Paesi della regione. È questo il motivo per il quale supportiamo il Piano di Azione per un mercato comune regionale». Proprio da questo mese di agosto, dal progetto della cosiddetta “Mini Schengen” al nuovo format dei “Balcani Aperti”, riprendono quota, tra alcuni Paesi della regione, i progetti di cooperazione a livello regionale: non un percorso di vera e propria convergenza, dunque nulla a che vedere con una rinnovata idea di confederazione balcanica o di rinnovato programma di «unità e fratellanza» tra i popoli dell’Europa del Sud Est, bensì la prosecuzione, essenzialmente sotto altro nome e con ulteriore precisazione degli ambiti e dei limiti della cooperazione interstatuale, del progetto di apertura di mercato e di apertura delle frontiere tra alcuni Paesi.

Si tratta, in particolare, della Serbia, dell’Albania e della Macedonia del Nord, i cui rispettivi capi di Stato e di governo, il presidente serbo Aleksandar Vučić e i primi ministri albanese e macedone Edi Rama e Zoran Zaev, si sono incontrati proprio nella capitale macedone, Skopje, il 29 luglio, nel quadro del consesso multilaterale che va sotto il nome di Forum per la cooperazione economica regionale. L’iniziativa, appunto, di cooperazione economica transfrontaliera, che già aveva assunto dal 2019 l’appellativo di “Mini Schengen”, è stata così ribattezzata, come accennato, “Open Balkans”, e si è sostanziata nella firma di tre protocolli di cooperazione tra i tre Paesi, rispettivamente per il sostegno all’import-export, al commercio e alla circolazione di beni e prodotti nella regione, per il libero accesso al “mercato del lavoro” e, non ultimo per importanza, per la protezione dalle catastrofi nei Balcani Occidentali. A questi si aggiunge, inoltre, l’intesa, ancora tra Serbia, Albania e Macedonia del Nord, ai fini dell’abolizione dei controlli alle frontiere, a partire dal primo gennaio del 2023.

Nelle dichiarazioni che hanno accompagnato e seguito il vertice, puntualmente riportate dai media, non sono mancati, soprattutto, gli accenni al carattere “storico” di questi accordi, pur trattandosi di una sostanziale conferma di protocolli e accordi già condivisi (tutti nell’ottica del progressivo allineamento dei mercati dei rispettivi Paesi, per rispondere, quindi, all’esigenza delle economie nazionali di maggiori opportunità di circolazione di beni e servizi e di più favorevoli condizioni per il consolidamento delle rispettive economie di mercato) e i riferimenti al potenziale “allargamento” del progetto (anche per prevenire le reazioni di altri Paesi e territori non ancora, per differenti ragioni, coinvolti, quali, ad esempio, il Montenegro e il Kosovo).

Così, nella dichiarazione del presidente serbo, Vučić, «è tempo di prendere in mano la situazione e determinare il nostro futuro. […] In questo modo, coordiniamo le nostre capacità, diventiamo più forti e restiamo consapevoli del fatto che tutti manterranno la propria indipendenza e la propria sovranità». Il primo ministro macedone, Zaev, ha sottolineato che «allargheremo la cooperazione a molti altri campi di interesse comune, importanti per i nostri Paesi, dimostrando al contempo leadership e impegno a migliorare la cooperazione». Lo stesso primo ministro albanese, Rama, ha evidenziato che «i problemi del passato sono più facili da risolvere se gli occhi sono rivolti al futuro. I leader e i popoli della regione hanno deciso di fare il necessario senza aspettare che l’integrazione della regione dipenda dall’UE». Punto cruciale se, come ribadito da Vučić in conferenza stampa, «i nostri tre Paesi potranno attrarre più dell’80% degli investimenti nei Balcani Occidentali».

Non viene nascosta dunque la critica ai ritardi nel processo d’integrazione europea, nei confronti delle burocrazie comunitarie, rispetto alla cosiddetta “agenda dell’allargamento”, l’idea, al tempo stesso, di tutelare le proprie economie nazionali, difendendo l’agenda politico-economica dei rispettivi Paesi. Nelle parole di Zaev viene rimarcata non a caso «la volontà politica di garantire tutte le condizioni che dipendono dai governi dei tre Paesi per una cooperazione regionale efficace». I termini di questa cooperazione hanno l’obiettivo, come definito nel vertice che diede il via al processo della “Mini Schengen”, di avviare anche nei Paesi dei Balcani Occidentali il percorso di allineamento alle cosiddette “quattro libertà” della UE: libertà di circolazione dei prodotti, dei servizi, dei capitali e delle persone, attraverso il superamento progressivo dei controlli alle frontiere, la possibilità di muoversi tra gli Stati aderenti con la sola carta d’identità, il riconoscimento reciproco delle rispettive qualifiche professionali e dei rispettivi diplomi, una migliore cooperazione e una più sistematica collaborazione nella lotta alla criminalità organizzata e l’assistenza in caso di disastri e calamità naturali.

Si tratta di una linea apparentemente condivisa anche oltre Atlantico. In un’intervista dello scorso anno, Richard Grenell ribadì il focus sulle questioni economiche a base del confronto tra le parti, in linea con l’orientamento dell’amministrazione dell’epoca: «questioni economiche più che politiche». Con questo passaggio, ricordava cioè l’accordo raggiunto sul traffico aereo (la linea aerea tra Belgrado e Prishtina), primo del genere dalla fine della guerra, l’accordo in via di definizione sul traffico ferroviario, che avrebbe aperto nuove rotte al commercio, la ridefinizione dell’accordo sul traffico automobilistico, alludendo ancora alla cooperazione “mini-Schengen”.