Tutte e tutti ci ricordiamo della brutta immagine che ritrae Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione europea, quando si trovò relegata su un divano mentre, al centro della stanza, Charles Michel, Presidente del Consiglio europeo, era accomodato in poltrona alla destra del presidente turco, Tayyip Recep Erdogan: un’immagine iconica che sottolinea, ancora una volta, il maschilismo che pervade la società intera, in Italia e nel mondo.

In tutti i settori, pubblici e privati, le donne sono ancora soggette agli stereotipi che hanno segnato la mentalità nel corso dei decenni e loro stesse, spesso, non ne sono consapevoli: quante volte, infatti, sentiamo madri affermare: “I miei figli non li lascio a nessuno. Me li voglio crescere da sola”, anche criticando le donne che hanno scelto di lavorare. Stiamo parlando di empowerment: in Italia, le donne delegano troppo poco perché non sono del tutto convinte che lavorare possa essere fonte di soddisfazione e di autonomia. Coloro, invece, che sono impegnate professionalmente non vengono supportate ancora abbastanza da un bilanciamento dei ruoli (in famiglia, dove le responsabilità dovrebbero essere equamente condivise con il partner) e da un adeguato incentivo economico che permetta loro di farsi aiutare; spesso, molti mestieri non prevedono un reddito sufficiente a far sì che la donna abbia un supporto per tenere in ordine e pulita la casa, per le ripetizioni private dei figli, per una baby-sitter etc. Quindi, ancora oggi, è costretta a scegliere tra lavoro e famiglia.

Le sfide a cui sono ancora sottoposte le donne per ottenere maggiori diritti e parità con la posizione maschile, nella società e nella vita privata, sono trasversali: riguardano le donne comuni così come le donne manager; le donne inserite nel mondo del lavoro e le donne che operano nell’ambito familiare (le cui numerose attività non sono riconosciute come un impegno vero e proprio). Quali potrebbero essere, quindi, le soluzioni possibili?
Innanzitutto considerare l’opportunità di delegare alcune mansioni e di accettare i propri errori e le proprie fragilità; è importante il reciproco aiuto, evitando inutili e dannose competizioni; sarebbe anche importante comunicare, con ogni mezzo a disposizione, i risultati positivi ottenuti, nel momento in cui si agiscono buone pratiche.

A livello politico-istituzionale la società civile, anche con azioni di cittadinanza attiva, dovrebbe richiedere: una riforma per il sostegno alle famiglie, laddove la madre sia impegnata in un’attività lavorativa; incentivi alla parità professionale (salariale e di ruoli di responsabilità) che permetta alla donne di ottenere l’indipendenza economica; e infine, ma ancor più importante, una riforma dei diritti parentale nell’ambito del Diritto del Lavoro. Ad esempio si dovrebbe richiedere un periodo di paternità obbligatoria (oltre a quello di maternità) e una revisione degli orari di lavoro in presenza.

In Italia sono le donne a farsi carico della maggior parte delle attività di cura dei minori. Tra il 2015 e il 2019, oltre l’80 per cento dei beneficiari dei congedi parentali hanno riguardato le donne. Si registrano comunque lenti miglioramenti. Tra il 2015 e il 2019, la quota di uomini che ha utilizzato un congedo parentale è aumentata dal 15 al 21 per cento. Anche i congedi di paternità, cioè i congedi esclusivi per i padri utilizzabili nelle vicinanze del parto, sono aumentati. Siamo comunque ancora molto lontani da una situazione ottimale.

Bisognerebbe pendere esempio dalla casa automobilistica Volvo che, dal 1 aprile 2021, assegna un congedo parentale retribuito di 24 settimane per tutti i 40.000 dipendenti, senza distinzione di sesso.