Ho visto ieri sera finalmente al cinema Nomadland, dopo tanto che se ne parla.

Una storia/non storia che fotografa un percorso che ha un inizio e non ha una fine.

Solo un percorso, una strada, i paesaggi e i personaggi intorno, vissuti da Fern (Frances McDormand) che finalmente se ne è andata dalla casa dove ha vissuto col marito oramai morto da tempo.

Se ne è andata per ultima dalla cittadina di Empire, dove ha chiuso i battenti la fabbrica che sfamava tutti gli abitanti, che ora non ha nemmeno il diritto ad avere un codice postale.
Il paese vuoto è rimasto uno scheletro senza vita, come altri ne troverà Fern sulla strada che percorre con un furgone scassato e con le sole cose importanti che potevano starci dentro.
Dopo l’esperienza del lavoro dominante, che può cambiare la vita tua e degli altri se improvvisamente finisce e ti abbandona, Fern pare abbia deciso di usare il suo tempo, e soprattutto il tempo di lavoro, secondo le sue necessità: ogni tanto e quando ne ha bisogno. E scopre che non è l’unica a vivere così. C’è tutta una comunità nomade che a volte si incontra in mezzo al deserto ma poi si abbandona e si saluta dicendosi “ci vediamo sulla strada”, nuovi hobos motorizzati del XXI secolo.

È una comunità di persone che per scelta o necessità vive di lavori occasionali.

È gente spesso ferita, che ha perso il lavoro, ma anche, come Fern, che ha perso il figlio o la moglie. Per lo più è gente anziana che ha deciso di percorrere le strade della grande America per sfuggire i propri fantasmi o per ritrovare i propri sogni sapendosi vicina alla morte.

Sono lontane le città degli affari, e anche quelle costruite apposta per i vecchi ricchi in Florida.

Le strade percorse sono solitarie e puoi rischiare di morire se ti si buca una gomma e non sai come cambiarla.

È un mondo di solitudini che si incontrano per caso ma tra cui scatta un sentimento di solidarietà e amore.

Così si ritrovano in cerchio attorno a un fuoco per celebrare chi muore durante un viaggio il cui fine è stato rivedere quel costone di roccia sul fiume dove hanno nidificato le rondini ed è tutto uno svolazzare di uccelli e di uova che si schiudono e cadono in acqua.

È un incontro con le grandi vastità delle pianure e dei massicci rocciosi che le solcano.

È la dimostrazione che si può vivere rinunciando al superfluo cui si era abituati, portandosi dietro solo il necessario che può stare in un furgone malandato.

E forse così riesci a gustare un po’ quella felicità che credevi perduta e che ti spinge ogni volta a riprendere la strada.

È l’antico sogno della libertà cercata sulla strada o nella natura da Easy Rider a Thoreau da Whitman a Kerouac.

Ma qui non è la forza vitale o lo spirito di ribellione o la voglia di orizzonti più ampi che spinge verso questa ricerca.

È, piuttosto, la disperazione ed il dolore.

E il percorso ti rafforza strada facendo.

Se la società, l’economia possono far precipitare in una condizione di emarginazione, tuttavia chi la vive non si sente tale.

“Io non sono una senza tetto, semplicemente non ho una casa”, dice Fern ad un certo punto.

E l’assenza di casa, di un posto fisso in cui poter stare, è forse l’unica condizione di sopravvivenza morale in un mondo dove l’unica legge è quella del “dollaro”.

La ricerca della felicità è la stessa, anche se in maniera diversa, di Easy Rider e di tutta l’epopea kerouachiana. Sono tuttavia cambiate le ragioni che la determinano.

Negli anni cinquanta/sessanta era l’istinto ribelle di una America in espansione consumistica e apparentemente gioiosa che spingeva a cercare altre forme di vita.

Adesso che le illusioni dell’America post-bellica sono cadute, la casa non è più il luogo sicuro per la working class americana e la felicità si è costretti a cercarla, come dopo la grande depressione degli anni ‘30, su quel nastro di asfalto che forse non finirà mai.

Carla Barbieri

 

Nomadland
Anno 2020
Regia Chloé Zhao
Soggetto dal libro di Jessica Bruder
Sceneggiatura Chloé Zhao
Produttore Frances McDormand, Peter Spears, Mollye Asher, Dan Janvey, Chloé Zhao
Musica: Ludovico Einaudi