Il fiume Niger scorre per 4.200 km ed è il terzo fiume più lungo dell’Africa, dopo il Nilo e il Congo. Il suo bacino idrografico copre una superficie di circa 2,2 milioni di km², con la maggior parte della sua area concentrata tra Mali e Niger. 

Nasce tra la Sierra Leone e la Guinea, ai piedi dei Monti della Loma, e dopo aver attraversato sei Stati, due dei quali portano il suo nome (Niger e Nigeria), sfocia nell’Oceano Atlantico.

Il fiume Niger rappresenta una fonte d’acqua fondamentale, soprattutto per le regioni occidentali del Sahel. Tre maliani su quattro vivono nel bacino del Niger e, direttamente o indirettamente, dipendono delle sue risorse idriche (Rapport sur l’état du fleuve Niger au Mali, 2018).

In Mali, questo fiume continua ad essere al centro dello sviluppo socio-economico del paese, ma le sue condizioni sono preoccupanti. Inquinanti di vario tipo, metalli pesanti, solfati, fenoli, cloruri, nitrati, pesticidi e reflui organici, solo per citare alcuni esempi, stanno minacciando la qualità delle sue acque e la salute pubblica (Agriculture urbaine, pauvreté et sécurité alimentaire: un portrait du Mali, Boccanfuso e Yergeau 2020). 

Il grande corso d’acqua sta subendo gli effetti del cambiamento climatico e il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (o IPCC) considera il bacino del Niger come una delle regioni al mondo più vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico in corso (Plan d’investissement pour le renforcement de la résilience au changement climatique du bassin du fleuve Niger, 2015). 

Prima parte

Percorrendo la strada delle ambasciate e dei grandi hotel di Bamako, buttando un occhio tra un palazzo e l’altro, non si può non scorgere una luce intensa, a tratti accecante, provenire dal grande fiume che taglia in due la capitale del Mali. È il riflesso delle acque del Niger.  Risulta difficile definire il colore di questo fiume enorme, cambia con l’ora del giorno e con la posizione da cui lo si osserva.

All’apparenza dimenticato dagli abitanti della capitale, il fiume sembra quasi non essere sfruttato e le sue acque fluiscono calme e silenziose. Se si prova però a concentrarsi sui dettagli, allora ci si rende conto che in realtà le sue acque brulicano di vita: bambini che nuotano, donne chine a lavare i panni, uomini a bordo di lunghe piroghe di legno scolpite a mano. Un’intera comunità di persone in acqua. Loro sono i pescatori bozo di Bamako.

Gruppo comunitario diffuso in tutto il Mali centrale, i bozo si trovano anche nella capitale del paese dove provano, nonostante le varie difficoltà offerte dal contesto urbano, a mantenere le loro abitudini e tradizioni, continuando a vivere accanto a ciò da cui dipendono: il fiume Niger.

Tiéba è un giovane maliano che vende souvenir al ristorante Capitaine, poco distante dalle rive del Niger. Lo incontro per caso mentre mi dirigo a Badalabougou, il quartiere dove si trova l’insediamento bozo più affollato della capitale. Il ragazzo si offre spontaneamente di fare da interprete, cosa fondamentale considerato che le persone di questo posto parlano il francese a stento.

Per entrare nel campo, che più che altro è una baraccopoli, oltrepassiamo un grande cortile pieno di roghi di immondizia. A Bamako, infatti, non esiste un vero e proprio sistema di gestione rifiuti e quelli che non finiscono ai bordi delle strade sono perlopiù raccolti da carretti trainati da bambini e scaricati in qualche angolo della città, come in questo caso, per essere poi dimenticati o bruciati.

Oltre ai fumi della combustione, a nascondere l’accampamento dei bozo ci pensano anche le alte mura ricoperte da filo spinato degli alberghi del quartiere. Mura di altro tipo costituiscono invece le baracche dove vivono i pescatori che stiamo per incontrare. Terra e paglia compongono le pareti, lamiere arrugginite e teli di plastica i tetti. Alcuni pneumatici appoggiati qua e là tengono assieme la composizione.

Ogni abitazione ha una sorta di patio, usato dalle donne per cucinare e dagli uomini per sistemare le reti da pesca. “Il pesce della giornata viene affumicato su braci di carbone”, spiega Tiéba. “L’affumicatura è uno dei pochi modi possibili per conservare il cibo dove non si disponga di elettricità”.

Nel cuore della baraccopoli i bambini si fanno numerosi, girano scalzi e mezzi nudi, moccolo al naso e qualche manina in aria per salutare la toubab (così sono chiamati gli occidentali in Mali) che si aggira per casa loro.

Al riparo delle fronde di un’acacia, un uomo ripara le crepe della sua piroga: è larga con i fianchi bassi, il suo legno è scuro, legno rosso proveniente dal sud del Mali.

Dirigendoci verso le imbarcazioni ormeggiate a riva, si deve fare attenzione a non mettere i piedi dentro i rigagnoli di acque reflue provenienti dagli altri quartieri della capitale. “Pensi che Bamako sia dotata di un sistema di trattamento delle acque reflue?”, chiede sarcasticamente Tiéba. “In questo periodo dell’anno una delle malattie più diagnosticate negli ospedali è la malaria. Anche se siamo in piena stagione secca, le zanzare persistono a causa delle fogne a cielo aperto che attraversano ogni angolo della capitale prima di sfociare nel Niger. Abbiamo più casi di malaria che di covid-19, questo è sicuro”.

Su un piccolo pontile delle donne sono indaffarate a pulire le stoviglie usate per il pranzo mentre, poco più in là, un gruppo di bambine si lava. Tutto è promiscuo e insalubre: si pulisce, si cucina, si risciacqua con la stessa acqua

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