Si è finalmente insediato in Kosovo il governo di Albin Kurti, leader di Vetëvendosje, senza dubbio il grande vincitore delle elezioni dello scorso San Valentino. Il governo ha ricevuto la fiducia del parlamento della autoproclamata “repubblica”, ha ottenuto 67 voti a favore e 30 voti contrari, ed è composto in totale da 18 membri, di cui, in particolare, 15 ministri. Di questi quindici ministri, un terzo è rappresentato da donne, quattro sono espressioni delle minoranze, un Serbo del Kosovo, un Bosgnacco, un Egyptian e un Turco.

Una ripartizione che già dice qualcosa sulle intenzioni del nuovo esecutivo che, sull’onda dei toni seguiti in campana elettorale e del risultato espresso dalle urne, pare avviarsi lungo due direzioni: il rinnovamento, come mostra la composizione e la non irrilevante presenza femminile, certo lontana dai più avanzati standard democratici, ma significativa in riferimento al contesto e ai precedenti espressi dal sistema politico kosovaro; l’approccio nazionale, se non un vero e proprio tratto nazionalistico, che conferma la componente albanese kosovara come fattore dominante della scena pubblica della regione e riserva alle minoranze nazionali la rappresentanza simbolica (di un esponente a testa), senza tenere in considerazione né la loro effettiva composizione né la loro effettiva rappresentanza parlamentare. La Lista Serba, espressione politica saliente dei Serbi del Kosovo e che ha avuto un ottimo risultato, oltre il 90% nel Kosovo del Nord, poco oltre il 5% su base regionale, quinta forza politica del Kosovo, ha già dichiarato che non intende sostenere il nuovo governo Kurti e che intende, viceversa, fare appello alla corte costituzionale del Kosovo, avendo la comunità serba diritto a due membri nel governo. Del resto, l’approccio sostanzialmente nazionalista del capo del governo, Albin Kurti, pare trovare una conferma anche nella scelta dei vice-premier, Besnik Bisljimi, di Vetëvendosje, quale ministro dell’integrazione europea, Donika Gervala, quale ministro degli affari esteri, ed Emilja Rexhepi, come ministro delle minoranze e dei diritti umani, quest’ultima espressione della minoranza bosgnacca.

Nella presentazione alla camera, Kurti ha posto subito l’accento sui temi guida del suo nuovo esecutivo. In primo luogo, la lotta contro la pandemia, spingendosi ad affermare che il governo ha intenzione di fornire vaccini per il 60% della popolazione del Kosovo entro la fine dell’anno. Solo dalla metà di marzo, l’Albania ha iniziato a vaccinare i medici giunti dal Kosovo allo scopo di sostenere la regione limitrofa nei suoi sforzi contro il COVID-19. In Kosovo, la prima fornitura di vaccini attraverso il sistema COVAX è arrivata solo il 29 marzo scorso, mentre il COVID-19 ha ucciso, al 30 marzo, oltre 1.800 persone nella regione, pari all’incirca allo 0.1% dell’intera popolazione kosovara. Ancora a fare data alla metà di marzo, in base agli ultimi dati disponibili, è andata avanti, intanto, sostenuta da Belgrado, la campagna di vaccinazione per i Serbi del Kosovo settentrionale, nei distretti a prevalente maggioranza serba e con amministrazioni locali legate alla Serbia (Kosovska Mitrovica, Zvečan, Leposavić, Zubin Potok), dove sono arrivate le dosi inviate da Belgrado. Insomma, drammaticamente, sino a questo momento, la risposta delle autorità kosovare alla pandemia è stata assai carente, pur in considerazione delle responsabilità e dei ritardi che da più parti vengono ascritti alla Unione Europea, e sarà senza dubbio uno dei banchi di prova del nuovo governo appena insediato.

In secondo luogo, è stato riaffermato il tema del dialogo con la Serbia, da mesi ormai in una fase di stallo, e che Albin Kurti intende riformulare su nuove basi. «Senza il riconoscimento di un Kosovo indipendente, non ci può essere normalizzazione delle relazioni tra i due popoli e i due Paesi» è stato un passaggio del suo intervento ripreso dagli organi di informazione. Se il riferimento al riconoscimento della indipendenza del Kosovo è scontato, sia in termini di politica interna (definire il quadro di una piattaforma negoziale da reinventare), sia in termini di politica europea (condizionare il tavolo del dialogo mediato dall’Unione Europea a Bruxelles), il carattere innovativo che Kurti intende imprimere al dialogo si può sintetizzare in una parola: «reciprocità». «Miglioreremo le nostre relazioni attraverso la reciprocità. La strada per l’integrazione nell’UE può essere impegnativa, ma non ci sono alternative». Nella realtà, tuttavia, al netto degli sforzi sul tavolo del dialogo che devono proseguire, nel senso della costruzione di un quadro di relazioni che sia, al tempo stesso, rispettoso del diritto internazionale, fondato sul riconoscimento universale dei diritti umani e capace di porre solide, effettive, basi per la riconciliazione e per la «pace con giustizia», la posizione del Kosovo rimane delicata. Al settembre 2020, il Kosovo è riconosciuto come stato indipendente solo da 98 Stati membri delle Nazioni Unite su 193 (51%), 22 Stati membri UE su 27, 26 Stati membri NATO su 30, le cifre mostrando con evidenza quale parte di mondo riconosca il Kosovo, appunto, come stato indipendente.

La cornice di diritto resta quella disciplinata dalla Risoluzione 1244 (1999) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che riafferma la sovranità e l’integrità territoriale della Repubblica Federale Jugoslava (oggi Serbia) e degli altri Stati della regione, come indicato nell’Atto Finale di Helsinki, e stabilisce una sostanziale autonomia e una significativa auto-amministrazione per la regione, seguita dal parere (non vincolante) della Corte Internazionale di Giustizia (2010) che ribadisce, in termini generali, che la dichiarazione di indipendenza del Kosovo non costituisce una violazione in sé del diritto internazionale (parere con il voto contrario, peraltro, del vicepresidente Tomka e dei giudici Koroma, Bennouna e Skotnikov). Al netto dell’attuale stallo diplomatico, il processo del dialogo ha peraltro prodotto sin qui un risultato significativo, sebbene guardato con sospetto, se non con ostilità, dalle forze nazionaliste di entrambe le parti, vale a dire l’accordo di principio dell’aprile 2013, integrato con un nuovo protocollo nell’agosto 2015, tra il governo serbo e l’autogoverno kosovaro, in ordine alla soluzione della questione del Kosovo. Un accordo cui si giunse – è bene ricordarlo – grazie allo sforzo diplomatico nel quale si cimentarono le parti, grazie alla “facilitazione” da parte dell’Unione Europea e grazie alla “consultazione” di tutte le parti anche con ufficiali NATO, che fornirono assicurazione intorno al fatto che le forze di sicurezza kosovare sarebbero rimaste all’esterno delle aree a maggioranza serba, prevalentemente concentrate, come ricordato, nel Nord del Kosovo, e che l’ingresso delle forze di sicurezza kosovare sarebbe potuto avvenire solo con un’autorizzazione delle forze NATO e dietro accordo con le autorità municipali dei Serbi del Kosovo. La separazione e la diffidenza che ancora, in buona misura, pesano sugli equilibri delle relazioni nella regione impongono, infatti, una cornice di reciproca sicurezza e uno sforzo di costruzione della fiducia in base al quale esplorare il punto di equilibrio, ad esempio tra la richiesta serba di garantire autonomia e sicurezza alle minoranze e la richiesta kosovara di effettivi governo e sovranità.

Pochi ricordano oggi la discussione, che tenne banco dopo la guerra del Novantanove, a cavallo degli anni Duemila, degli «standard prima dello status». Il Kosovo avrebbe dovuto conseguire progressi significativi, effettivi e verificabili in otto aree (standard) prima che la discussione sullo status finale della regione potesse essere effettivamente avviata: istituzioni democratiche funzionanti; stato di diritto e diritti umani; libertà di movimento; rientri e reintegrazione; economia; diritti di proprietà; dialogo con Belgrado; situazione del Kosovo Protection Corps. All’epoca i serbi non parteciparono alla redazione del piano di lavoro legato alla piattaforma degli standard in vista dello status; secondo il capo della missione UNMIK (la Missione di Amministrazione ad interim delle Nazioni Unite in Kosovo) dell’epoca, Harri Holkeri, «la loro (dei Serbi) principale preoccupazione, che il processo di implementazione degli standard minacciasse la risoluzione 1244 (1999) del Consiglio di Sicurezza e pregiudicasse il futuro status, era totalmente infondata». Il segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, ebbe a sottolineare che «la multietnicità, la tolleranza e la parità di diritti per tutte le comunità devono essere sostenute da tutte le istituzioni locali e gli atti di intimidazione e di violenza, in particolare contro le minoranze, sono dannosi per il progresso in qualsiasi area e devono cessare. È responsabilità dei leader e della popolazione del Kosovo garantire che lo stato di diritto sia rispettato, e spetta anche ai leader del Kosovo dare l’esempio e promuovere un ambiente di rispetto e di tolleranza reciproci, e a tutti gli abitanti del Kosovo creare una società in cui tali valori siano riconosciuti e sostenuti».

I richiamati accordi del 2015 prevedono che i Comuni serbi del Kosovo, a partire da quelli del Nord, conseguano maggiore autonomia nell’organizzazione della giustizia, della polizia e dei servizi, in particolare quelli più vicini ai bisogni dei cittadini, come la sanità, l’istruzione e la cultura, aspetti da cui dipendono sia la sicurezza delle comunità, sia la tutela del patrimonio storico-culturale; per la polizia kosovara del Kosovo del Nord prevede la nomina di un comandante regionale serbo kosovaro; per la giustizia prevede la costituzione di una Corte d’Appello a Mitrovica, la città maggiore del Nord del Kosovo. Infine, definisce la Comunità dei Comuni serbi del Kosovo, con prerogative sostanziali nell’ambito dello sviluppo economico, dell’istruzione, della sanità, della pianificazione urbana e della pianificazione rurale. Con tali presupposti, si auspicava che l’accordo avrebbe determinato un «cambio di passo» nell’azione dell’autogoverno kosovaro e una riduzione della pressione sulle organizzazioni della società civile; un clima nuovo nella regione e nelle relazioni tra le comunità; la necessità di «fare vivere» l’accordo anche con un rinnovato protagonismo della società civile.

Resta una traccia, in questo auspicio, che torna, mutando, di attualità. Come è stato da più parti messo in luce, oggi il Kosovo vive una stagione difficile della sua vicenda politica e sociale, non solo alle prese con la pandemia, il contagio, le vittime, ma anche con una grave situazione economica e sociale, la disoccupazione, la difficoltà delle condizioni di vita e della situazione sociale, nonché alle prese con una diffusa corruzione. Come di consueto, la prima seduta del nuovo governo kosovaro ha avuto carattere solenne e il primo atto cerimoniale del capo del governo è stata la visita al “Complesso Memoriale Adem Jashari” di Prekaz, seguita da un incontro con il direttore dell’Ufficio della UE in Kosovo, Tomas Szunyog. Il rappresentante speciale UE per il dialogo tra Belgrado e Prishtina, Miroslav Lajčák, si è congratulato con Kurti, ribadendo che «l’UE è pronta a facilitare un dialogo sulla normalizzazione delle relazioni con la Serbia». Il rappresentante della politica estera UE, Josep Borrell, ha dichiarato di attendere «con impazienza una cooperazione congiunta per portare a termine con successo il dialogo tra Belgrado e Prishtina. Ciò è fondamentale per il percorso europeo».

Un percorso, come si vede, non privo di ostacoli e insidie; ma in cui diplomazia e diritti devono poter tornare in primo piano, ascoltando le istanze, soddisfacendo i bisogni, proteggendo tutti i diritti di tutti e di tutte.