Amir Labbaf è iraniano, è un attivista per la difesa dei diritti Darwish, vive ora su una sedia a rotelle in un campo profughi bosniaco

La politica, la politica nella società, dal ‘basso’, la lotta di classe, la politica non confiscata nei meandri burocratici degli Stati, è sempre stata un’esperienza del corpo: gli scioperi, i picchetti, le manifestazioni…

Nel caso dei migranti che accogliamo, tutto questo si accentua, perché i loro corpi richiedono sempre un rapporto iniziale di cura, che, da cura nel significato sanitario, si allarga immediatamente a qualcosa che rimanda al rapporto di cura in senso pieno: io mi curo di te. L’esperienza di piazza è in qualche modo un rimettere al mondo sociale persone che hanno vissuto ai limiti della sopravvivenza, braccati come bestie dagli Stati, i padroni dell’identità, senza di cui si è non vivi e non morti (ma anche morti non guasta): illegali, fuori dalla legge, fuori dalla vita, ricacciati, nel migliore dei casi nella mera sopravvivenza.

Il migrante non può contare che sul suo corpo, sulla sua nuda vita (citando un filosofema ormai abusato).

È quello che ha fatto Amir Labbaf con uno sciopero della fame, e poi anche delle medicine, di 12 giorni.

Io ho sentito il peso del suo grosso corpo mentre lo aiutavo a scendere e salire le scale di un ristorante in Bosnia, insieme al suo amico Reza. Il corpo di un uomo ridotto in carrozzella, inchiodato al suo peso. Da quando ha avuto l’incidente non casuale in Croazia, cadendo lungo un pendio per evitare l’urto di un’automobile e poi le lunghe ore a terra nella boscaglia e poi il salvataggio per opera di migranti pakistani (crudelmente picchiati e rimandati in Bosnia) e poi il letto nell’ospedale di Rijeka e poi la presa della polizia e poi, abbandonato come un corpo morto seminudo nei pressi del confine con la Bosnia, il lungo penoso strisciare fino in Bosnia dove qualcuno lo ha visto e raccolto.

Infine, il campo, la carrozzella, la vita di un uomo reso prigioniero del suo corpo. La prigione più dura. Però non ha desistito e ha usato questa prigione del corpo come un’arma di lotta: lo sciopero della fame.

In fine, ha ottenuto un prima vittoria: una promessa da chi può farla – forse labile o almeno un primo passo in quello che può, deve, diventare un percorso – il suo game.

Gian Andrea Franchi

 

Articolo di Gian Andrea Franchi, Docente di filosofia, attivista per i diritti dei migranti in Linea D’Ombra ODV.

E’ stata lanciata una petizione su change.org: Corridoio umanitario per Amir Labbaf