Anche la Slovacchia è stata duramente colpita dall’ ondata autunnale della pandemia di coronavirus. Rispetto ai suoi vicini di Visegrad, il governo Matovič ha risposto alla sfida in modo inedito, mettendo a punto un sistema per testare tutta la popolazione unico in Europa. Non sono mancate critiche alla gestione della nuova emergenza, ma davanti a moltissimi governi la Slovacchia ha fatto sicuramente meglio.

I test di massa

Il governo Matovič ha deciso di tentare la strada dei test rapidi per tutta la popolazione residente. L’obiettivo è stato quello di tracciare gli abitanti della Slovacchia, dai 10 ai 65 anni, cittadini stranieri compresi. Un esperimento unico in Europa per contrastare la pandemia da coronavirus, possibile anche grazie alle ridotte dimensioni del paese e al numero abbastanza esiguo dei suoi cittadini (meno di 5,5 milioni di persone). L’esperimento è stato voluto fortemente dal premier Matovič, convinto della necessità di limitare il contagio attraverso la ricerca degli asintomatici.

Il primo giro di test è avvenuto l’ultima settimana di ottobre, quando in pochi giorni sono stati mappati tutti i distretti della Slovacchia, con successivi screening ripetuti nelle aree con la più alta percentuale di contagi. Squadre di medici e infermieri sono state dispiegate a ogni angolo del paese per questi test, ufficialmente volontari ma di fatto obbligatori, dato che è stata vietata la libera circolazione nel paese senza il famoso “certificato blu”, rilasciato dalle autorità sanitarie e attestante un test negativo al coronavirus.

La strategia del governo ha permesso di limitare gli effetti negativi dell’ondata di contagi, ma è stata certamente molto dispendiosa, in termini sia economici che politici. In molti hanno criticato l’obbligatorietà del test, la spesa eccessiva sostenuta e l’effettiva utilità di una tale mobilitazione di massa. La stessa presidente Zuzana Čaputová si era opposta al carattere vincolante dei test per tutta la popolazione, invitando il governo a trovare una formula giusta che spingesse i cittadini a partecipare volontariamente, mettendo in guardia l’esecutivo sull’affidabilità dello screening, oltre che sul rischio di mettere sotto pressione strutture e addetti ai lavori con un’operazione di tali dimensioni.

Mentre in tutta Europa, soprattutto nei paesi di Visegrad, la situazione andava ampiamente fuori controllo, il piccolo paese del centro Europa è comunque riuscito a limitare i danni più degli altri, con un approccio duro e credibile, grazie alla responsabilità di un governo che non ha mai negato il problema. Con dati migliori di molti altri paesi, la Slovacchia ha adottato un secondo lockdown molto più morbido del primo.

Se si sia trattato di lungimiranza o di consapevolezza di non essere pronti a un’ondata di contagi è difficile da giudicare, ma non è in discussione il fatto che l’approccio sia stato corretto, e che di fronte agli altri governi di Visegrad quello slovacco ne esca a testa altissima.

Matovič contro tutti

Le scelte di Matovič, come detto, non sono piaciute a tutti. La cronaca politica del paese ha visto il premier slovacco sotto pressione in questi ultimi mesi. Il suo mandato da primo ministro è iniziato a marzo, già in piena emergenza, con la popolazione chiusa in casa e i confini blindati. E’ quindi impossibile scindere il contesto pandemico dal giudizio politico verso il suo governo. Matovič si è ritrovato ad avere a che fare con una condizione emergenziale, dovendo in pochissimo tempo riorganizzare completamente l’agenda politica che aveva caratterizzato la sua campagna elettorale e le elezioni di febbraio. In questi mesi si è ritrovato spesso in balia degli eventi, tentando di difendersi dai vari attacchi provenienti dall’interno e dall’esterno della sua maggioranza.

Tra i suoi partner di coalizione, la formazione liberale di Libertà e Solidarietà (SaS) ha portato avanti una linea “aperturista”, disposta forse a rischiare una crisi sanitaria senza precedenti pur di guadagnare qualche decimale di Pil. Le pressioni interne a un approccio morbido hanno ritardato la risposta del governo, convinto a voler fare di tutto per fermare l’escalation del contagio. Forze politiche di opposizione come di maggioranza, oltre alla presidente Čaputová, hanno criticato il governo per l’indecisione dimostrata all’inizio dell’estate, quando Matovič ha rimandato le riaperture per paura di vanificare gli sforzi primaverili.

L’inesperienza del premier slovacco è stata la ragione delle critiche di molti. Dall’opposizione, il leader dei socialdemocratici Robert Fico ha attaccato il premier proprio su quest’aspetto. La poco esperienza istituzionale del nuovo primo ministro è stato l’elemento che ha condizionato di più il suo agire, spesso giusto ma comunicato in modo errato. La percezione comune è stata, ed è, quella di un primo ministro troppo spesso sotto pressione, indeciso sul da farsi e imprevedibile nelle scelte, guidato forse dal panico di non riuscire a controllare la situazione davanti a un’emergenza così determinante per la vita dei suoi cittadini.

L’ex premier Peter Pellegrini, fuoriuscito dai socialdemocratici e ora leader di una formazione autonoma di centro-sinistra, sembra poter approfittare politicamente di questa sensazione condivisa da molti slovacchi. Ha superato Matovič in tutti i sondaggi, sia come gradimento personale che come preferenza di voto al partito. Un’indiretta pressione politica che certamente ha influito negli umori e nelle scelte del premier.

Il disastro dei Visegrad

La capacità di risposta alla sfida pandemica del governo slovacco appare però più che sufficiente quando si volge lo sguardo oltre confine. I leader dei paesi del gruppo di Visegrad sono stati travolti dalla seconda ondata di contagi, generando un disastro politico e una crisi sanitaria molto più ingenti rispetto a quanto accaduto in primavera.

In Polonia, il PiS aveva decretato la conclusione della pandemia in estate, finendo pochi mesi dopo a costruire in fretta e furia ospedali da campo (tra i quali uno all’interno dello stato nazionale di Varsavia) per tentare di frenare l’esplosione di nuovi casi. Il governo polacco si è ritrovato totalmente impreparato all’ondata di contagi, decidendo quindi di negare il problema invece di affrontarlo. Così i dati segnano oggi un numero di deceduti in crescita e, in rapporto alla popolazione, anche il numero di test effettuati più basso d’Europa e la percentuale di tamponi positivi più alta di tutto il mondo. Un valore, quest’ultimo, che fotografa senza bisogno di didascalia il disastro in corso nel paese: se la media europea si è aggirata intorno al 20% di test positivi su test effettuati, in Polonia questo indice è arrivato al 50%, segno di una totale assenza di pianificazione e tracciamento. Un record mondiale raggiunto dal governo polacco del quale i cittadini avrebbero volentieri fatto a meno.

Non è andata meglio in Repubblica Ceca, dove il tasso di contagi in rapporto al numero di abitanti ha raggiunto il primato mondiale, un record non invidiabile per Babiš e il suo governo, che in piena seconda ondata è riuscito nell’impresa di cambiare tre ministri della Salute nel giro di poche settimane. Praga è stata tra le prime capitali europee a finire in lockdown duro durante l’autunno e la Repubblica Ceca a comparire nelle liste nere di moltissimi paesi europei, che già all’inizio di ottobre avevano chiuso le frontiere ai cittadini cechi.

In Ungheria la situazione è stata tutt’altro che rosea. Il governo di Orbán ha risposto alla seconda ondata di contagi con misure contrastanti, chiudendo i confini ma aprendo gli stadi. Una reazione in salsa nazionalista che non poteva che generare una nuova emergenza sanitaria e un riacutizzarsi della pandemia. In Slovacchia, invece, tutti i dati sanitari sono risultati i migliori del gruppo di Visegrad.

È difficile prevedere i futuri effetti della pandemia sul quadro politico dei paesi di Visegrad e sulla Slovacchia. Molto dipenderà dalla situazione economica che il contesto emergenziale modellerà nei prossimi mesi. Su quella sanitaria, invece, a Matovič va riconosciuto il tentativo di averci almeno provato.

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