Il Perù ha un nuovo presidente, il quarto in due anni. Si tratta di Francisco Sagasti, del Partido Morado (centro-destra), che prenderà il posto del dimissionario Manuel Merino, travolto dalla contestazione di piazza. L’ingegnere industriale ed ex dirigente della Banca Mondiale è stato prima eletto come presidente del parlamento con 97 voti a favore e 26 contrari e domani assumerà l’incarico rimasto vacante.

Domenica scorsa, dopo una settimana di proteste, il paese andino si era risvegliato piangendo i suoi primi morti. Due ragazzi, Inti Sotelo Camargo di 24 anni e Bryan Pintado Sánchez di 22 anni, sono caduti sotto i colpi della polizia. Più di un centinaio i feriti, alcuni gravi, e almeno venti le persone di cui non si hanno più notizie.

Dopo essere stato abbandonato dalla maggior parte de suoi ministri e dovendo affrontare l’opposizione del suo stesso partito (Acción Popular) e il clamore per la violenza che si è scatenata contro i manifestanti, Manuel Merino ha rinunciato alla presidenza del Perù.

È durata quindi meno di una settimana la sua esperienza alla testa di un governo fantoccio, nato lo scorso 9 novembre dopo che 105 dei 130 deputati avevano destituito il presidente Martín Vizcarra e lo avevano sostituito, come prevede la costituzione peruviana, con il presidente del parlamento.

Per disfarsi di Vizcarra si sono appellati all’articolo 113 della Costituzione, che permette di adottare una misura così drastica in caso di “incapacità morale o fisica permanente” del presidente. Vizcarra è infatti indagato per la presunta partecipazione a un grosso giro di tangenti quando era governatore di Moquegua. Un sistema di corruzione ben oliato, attraverso il quale le più importanti imprese di costruzioni – tra cui la tristemente famosa società brasiliana Odebrecht, coinvolta in scandali simili in quasi tutta l’America latina – si spartivano le opere pubbliche mediante gare d’appalto truccate e dietro il pagamento di robuste bustarelle.

Che cosa però significhi “incapacità morale” non è solo un elemento di discussione tra le forze politiche presenti in parlamento, ma fa anche parte di un ricorso presentato lo scorso anno dallo stesso Vizcarra ai magistrati del Tribunale Costituzionale, i quali hanno ancora tempo fino al 18 novembre per darne un’interpretazione giuridica, legittimando o meno la destituzione dell’ex presidente.

In quell’occasione, di fronte al rifiuto della maggioranza parlamentare – in mano alle destre – di approvare riforme costituzionali, Vizcarra aveva sciolto il massimo organo legislativo e convocato nuove elezioni. Come risposta i deputati lo avevano destituito, ma il ricorso presentato al Tribunale Costituzionale aveva sospeso l’atto.

Un presidente illegittimo

Il nuovo colpo di mano da parte dei deputati è quindi stato catalogato dalla popolazione come un “colpo di stato parlamentare” e Merino si è trasformato, d’immediato, nel principale bersaglio delle proteste che sono esplose un po’ in tutto il paese. Una crisi politica ed istituzionale che si sovrappone a quella sanitaria che ha devastato la nazione andina a partire da marzo. Il Perù è tra i paesi latinoamericani maggiormente colpiti dalla pandemia, con 933 mila casi e più di 35 mila morti, un sistema sanitario al collasso e una crisi economica che ha ampliato ulteriormente le già enormi sacche di povertà.

La corruzione ha inoltre contraddistinto gli ultimi 30 anni della vita politica peruviana. Tutti i presidenti che si sono succeduti dal 1990 a oggi, da Alberto Fujimori a Alejandro Toledo, passando per Alan García e Ollanta Humala, fino ad arrivare a Pedro Pablo Kuczynski, sostituito dopo meno di due anni da Martín Vizcarra, sono stati coinvolti e indagati per gravi atti di corruzione.

A questo si aggiunge un sempre meno sostenibile sistema istituzionale che, oltre a basarsi sulla corruzione, si fonda su una specie di ‘presidenzialismo parlamentare’, con l’elezione diretta del presidente che assume il controllo dell’azione di governo, ma con un parlamento che gode di ampi poteri che, di fatto, ne limitano la capacità. Un referendum promosso dallo stesso Vizcarra ha poi introdotto il divieto di rielezione consecutiva per i deputati, creando maggiore discontinuità e rendendo ancora più difficile consolidare una maggioranza che sostenga i piani di governo.

Dopo un primo tentativo fallito in cui il Frente Amplio (sinistra) aveva presentato una lista di candidati che avevano votato contro l’impeachment di Vizcarra, il parlamento si è riunito nuovamente questo lunedì e ha eletto la nuova giunta direttiva, il cui presidente, Francisco Sagasti appunto, ha assunto automaticamente la carica ad interim rimasta vacante dopo la rinuncia di Merino.

Sembra quindi che la destra peruviana e i gruppi di potere economico che controllano ancora il parlamento, non abbiano capito o non vogliano ascoltare le voci che arrivano dalla piazza. Un atteggiamento pericoloso, che potrebbe incendiare ulteriormente il paese e innescare una crisi ancora più profonda e dagli esiti incerti. Inutili e contraddittorie sono quindi apparse le dichiarazioni di voto dei deputati della destra peruviana, che hanno giustificato la loro decisione con la necessità di portare stabilità e pace a un paese in piena convulsione sociale.

Costituente?

Chi protesta, o almeno la maggior parte della gente che è scesa in piazza, non lo fa perché apprezza Vizcarra e ne chiede il ritorno, né per garantire che il Perù possa arrivare al voto il prossimo aprile per eleggere il quinto presidente negli ultimi due anni, bensì per dire basta a un sistema politico-istituzionale corrotto, iniquo e incapace di generare stabilità e garantire i diritti della popolazione. L’appello della piazza ai deputati è stato infatti quello di nominare un governo di transizione per traghettare il paese verso una assemblea costituente, per la redazione di una nuova Costituzione e la creazione di un nuovo patto sociale che contempli anche l’eradicazione della corruzione.

A questo proposito, la Confederazione generale dei lavoratori del Perù (Cgtp) ha pubblicato un comunicato che accompagna l’annuncio di uno sciopero generale per il prossimo 18 novembre, in cui non riconosce la legittimità dei poteri costituiti. “Se, come dice l’articolo 45 della Costituzione, il potere dello Stato emana dal popolo, esigiamo la nomina di un governo provvisorio con partecipazione popolare, che convochi immediatamente un’assemblea costituente”, segnala.

In pratica una soluzione simile a quella cilena dopo l’ondata di proteste popolari dello scorso anno e la vittoria nel plebiscito del 25 ottobre.

Una soluzione che comunque non sembra godere dell’approvazione degli Stati Uniti, né di quella dell’Organizzazione degli Stati Americani (Osa), che in questi giorni di convulsione sociale hanno mostrato grande cautela al momento si esprimere pareri su quanto stava accadendo, limitandosi a ribadire con forza la necessità di garantire lo svolgimento delle elezioni in aprile 2021. Lo stesso silenzio che ha contraddistinto una Unione Europea sempre più ruota di scorta degli Stati Uniti e un sempre più screditato Gruppo di Lima.

Usare lo strumento elettorale per dare un bel colpo di spugna e ristabilire lo status quo è una prassi molto spesso usata sia dalle autorità statunitensi che dall’organismo multilaterale americano. Troppi sono gli interessi che gli Usa hanno in Perù, a partire dai porti che da anni sono diventati centri operativi per la VI Flotta della US Navy, fino ad arrivare alla moltiplicazione delle basi militari e delle truppe statunitensi in territorio peruviano, nonché alle sempre più frequenti manovre militari congiunte e all’addestramento degli apparati di intelligence e di difesa.

Non è quindi un caso che il Perù abbia sostenuto sistematicamente le campagne d’intromissione e ingerenza lanciate dall’Osa, su mandato degli Stati Uniti, contro quei governi che non seguono pedissequamente gli ordini di Washington. Non lo è nemmeno il fatto che il Perù sia tra i paesi che per primi hanno riconosciuto Juan Guaidó come presidente del Venezuela e che abbiano votato a favore di tutte le risoluzioni e sanzioni approvate contro Cuba, il Nicaragua e il Venezuela.

L’unica possibilità per rompere questo status quo malato sembra essere, ancora una volta, la piazza. Nella misura in cui si mantenga e si aumenti l’intensità della protesta, aumenterà la possibilità di mettere in crisi un sistema politico-istituzionale obsoleto, malato e corrotto. Il Cile insegna.