“Testimoniare l’orrore della guerra e non la propaganda: questo ho fatto nei 41 anni da fotoreporter in giro per il mondo. Le brutalità e la violenza che ho dovuto vedere mi hanno sempre profondamente indignato, ma ero consapevole che la fotografia era un linguaggio universale e potente che capace di arrivare a tutti. Ho sempre sperato che le mie foto contribuissero alla cultura della pace”: con queste parole Manoocher Deghati, ci accoglie nel suo studio, nella campagna pugliese, dove l’abbiamo raggiunto qualche giorno fa, per parlare di pace guardando le sue immagini di guerra. E così, mentre progettiamo la realizzazione di una sua mostra nell’ambito di ‘Taranto, Comune per la pace’, una galleria di ritratti sui conflitti del mondo scorre sotto i nostri occhi. In quello che, nel 2014, è diventato il suo ‘buen retiro’, dopo l’ultima missione in Egitto.

Deghati ripercorre brevemente la vita, gli scatti, le guerre e le emozioni. Iran, America Centrale, Kuwait, Sarajevo, Egitto e Somalia, Medio Oriente sono solo alcuni dei luoghi, dei conflitti e degli scenari delle sue foto.

Nato in Azerbaigian iraniano nel ‘54, è diventato il leone iraniano della fotografia e del reportage di guerra. “Oggi – commenta sorridendo – tutti hanno un cellulare e possono fare foto. Trovo questo rivoluzionario! Quando io ho iniziato era tutta un’altra storia”.

Partito in treno dall’Iran alla fine del liceo, arrivò dopo una settimana a Roma, con pochi soldi in tasca. “Nella capitale mi sono iscritto ad una scuola di fotografia e per operatori cinematografici – racconta -, ma dopo poco tempo mi resi conto che per me non c’era uno spazio in quel mondo. Non era quella la mia strada. Fu anche per questo che nel ‘78 non esitai un attimo a tornare in Iran per documentare la rivoluzione nel mio Paese. Volevo stare sul campo con i democratici, i progressisti e gli attivisti dei diritti umani; non era solo fotogiornalismo, era il mio contributo al cambiamento”.

Deghati esclude un suo ritorno in Iran: non solo per la situazione in cui si trova ancora il Paese, ma anche perché “in Puglia mi sento a ‘casa’ – ci confida mentre prepara due tazze di the Lahijan -. Negli anni ho imparato a capire molto bene quando la relazione con un luogo è finita. Nel ‘85 ho lasciato l’Iran grazie al visto francese che avevo come fotoreporter dell’agenzia Sipa Press, altrimenti sarei stato sicuramente ucciso anch’io come tanti altri”.

Nell’aria, l’odore intenso del the, tra pareti di libri e foto nella lamia adiacente al trullo, calpestando un tappeto persiano beige e blu; ci accomodiamo al tavolo di lavoro e Deghati si apre alla narrazione: oltre quarant’anni di guerre, con gli occhi a tratti lucidi come quando si sofferma sulla foto di donne iraniane nel pieno della protesta. “Guarda, Annalisa… dopo questo scatto – e indica una foto tratta da una sua raccolta – sono state tutte uccise brutalmente”. Deghati ha tre figlie e quando ne parla, gli ritorna la luce nello sguardo: “due di loro vivono in Francia, mentre la più piccola è con me e mia moglie in Italia; sono felice che possano essere donne libere, lontane da retaggi culturali ancora esistenti in Iran”.

Da ogni sua esperienza Deghati ci dice di esserne uscito profondamente cambiato: “ho avuto la lucidità di accogliere questi cambiamenti interiori. Per esempio dopo essere stato in Africa e dopo aver visto tutta quella povertà, ho capito che non potevo più tornare a vivere a Parigi, anche se alla Francia devo moltissimo”.

Chirac andò a fargli visita nel 96’, mentre era nell’ospedale dei veterani di guerra a Les Invalides, a seguito dell’attentato di Ramallah. “Ricordo perfettamente quell’incontro; chiesi al presidente di risolvere, una volta per tutte, le traversie che ero costretto a vivere in perenne esilio. Pochi giorni dopo, ottenni il mio status di cittadino francese”.

Nel 2001 il leone iraniano, diventato freelance dopo aver lasciato France Presse, andò per conto di Geo Magazine in Afghanistan con l’obiettivo di realizzare un reportage sui talebani.

“Era tutto da ricostruire – ricorda Deghati -; i talebani e la guerra avevano raso al suolo Kabul, ma si sentiva per la prima volta un vento di cambiamento. Io e mio fratello Reza decidemmo di impegnarci per fare la nostra parte anche lì: costituimmo una ong chiamata ‘Aina’ che in persiano significa ‘specchio’; diventammo così anche leve del cambiamento occupandoci di cultura e istruzione. Ci mettemmo tutta la nostra anima e le nostre risorse”. Circa 3000 afghani sono stati formati dalla ong ‘Aina’, diventando personalità molto apprezzate e propulsori per la transizione del loro Paese. Uno di loro vinse anche il premio Pulitzer.

Lasciata l’Afghanistan per documentare un importante scavo archeologico, conobbe l’archeologa Ursula Janssen, che è diventata sua moglie, recentemente autrice un pregevole romanzo biografico autoprodotto su Deghati.

Nel 2006 il leone iraniano si trasferì a Nairobi, in Kenya, dove per conto delle Nazioni Unite aveva assunto l’incarico di costituire e condurre un’unità fotografica dell’agenzia di stampa dell’Onu. Deghati non tacque il suo dissenso per i costi elevatissimi del ‘carrozzone burocratico’ e chiuse presto quella parentesi.

Solo dopo avere documentato la rivoluzione egiziana, i conflitti in Siria e Libia, è arrivato in Puglia, dove ha trovato pace nelle campagne della Valle D’Itria. E qui si è fermato per ora.

Anche il nostro tempo insieme per questa giornata è finito: “C’é ancora tanto da fare e da dire sulla pace e i diritti, è molto bello ed importante il progetto ‘Taranto, Comune per la pace’ e abbiamo il dovere riempirlo ulteriormente di contenuti”.

Mentre usciamo dal suo studio, attraversando la corte del trullo, ci avviamo verso la cucina dove mi aspettano Ursula e sua figlia Clara per un saluto. Le grandi teiere iraniane si stagliano imperiose nel giardino, mentre i colori della campagna autunnale riscaldano l’atmosfera.

Picchiato, torturato, esiliato, minacciato, ferito per aver denunciato con le sue foto le ingiustizie, le guerre, i genocidi, le morti dei ribelli, la povertà, gli abusi, le rivoluzioni per la libertà e la democrazia, Manoocher Deghati, fotografando parte della storia dell’umanità, è entrato lui stesso di diritto nell’eternità della storia.