Il Senato (Rajya Sabha) ha approvato  due provvedimenti di riforma agraria il 20 settembre; la Camera bassa (Lok Sabha) tre giorni prima. Migliaia di persone già il 22 settembre hanno organizzato proteste e blocchi stradali in Stati agricoli come Punjab, Andhra Pradesh, Kerala e Hariyana.

Dalla mattina del 6 novembre è iniziata quella che è stata chiamata “chakka jaam”: mezzo milione di contadini in India ha bloccato le principali strade in 18 stati e hanno protestato in oltre 2.500 località. A promuovere l’agitazione sono stati i leader dell’All India Kisan Sangharsh Coordination Committee (AIKSCC), la più grande organizzazione di agricoltori del paese. Secondo le agenzie di stampa, le manifestazioni con la partecipazione più rilevante sono in corso in Punjab e in Haryana.

La protesta era la prova generale della mobilitazione nazionale che si è tenuta il 26 e 27 di novembre a Delhi. “Gli agricoltori si sono riuniti in tutto il paese contro l’altezzosità del governo centrale” – dichiara in un comunicato l’ AIKSCC – “Non ci fermeremo finché Delhi non abrogherà le recenti leggi sull’agricoltura”. Con la nuova legislazione, i contadini non dovranno più vendere i prodotti ai “Mandi”, i mercati controllati dai governi locali, che garantivano un prezzo minimo fisso, ma potranno offrirli a qualsiasi acquirente, svincolati dagli intermediari. Ciò porterebbe i contadini a ritrovarsi alla mercé delle grandi multinazionali che li priveranno del potere di contrattazione. A settembre, nei giorni che hanno preceduto il via libera riforma, persino il card. George Alencherry, arcivescovo maggiore della Chiesa siro-malabarese, aveva fatto appello affinché “agli agricoltori non siano negati i loro diritti”. Secondo mons. Jose Pulickal, presidente della Commissione, la liberalizzazione è una minaccia permanente per i piccoli agricoltori, perché favorisce colossi come i gruppi Ambani e Adani, che ora potranno imporre i prezzi e controllare il mercato agricolo. Secondo il governo, invece, la riforma porterà alla ristrutturazione dell’agricoltura e libererà gli agricoltori dal legame con gli intermediari, favorendo la modernizzazione del settore e del mercato.

La tesi del governo sembra non convincere gli agricoltori. D’altronde è uno scenario che in India, dove Il 70% delle famiglie dipende dal lavoro agricolo, si era già visto verosimilmente ed aveva portato a conseguenze drastiche per la popolazione. Gli agricoltori indiani hanno già vissuto sulla loro pelle gli anni della “Rivoluzione Verde” con l’introduzione di OGM, le coltivazioni del cotone BT e l’ingresso dei colossi agro-chimico-alimentari, cercando di monopolizzare l’economia agricola del Paese ed hanno indotto al suicidio più di 300.000 contadini in vent’anni ridotti ai limiti della povertà.

La mattina del 27 novembre, gli agricoltori hanno marciato lungo la principale autostrada nel nord del Paese per protestare contro la recente riforma agricola. All’inizio della mattinata, per la seconda giornata consecutiva, si era creato il caos attorno alla frontiera con lo stato dell’Haryana, a nord della capitale, ai due posti di frontiera di Singhu e Tikri. All’alba la polizia aveva nuovamente sparato lacrimogeni e cannoni d’acqua per fermare i contadini, mentre alcuni manifestanti rispondevano, distruggendo le recinzioni e tirando pietre e sassi. Dopo lunghe ore di trattative e tensione, il governo centrale indiano, che sinora aveva proibito la manifestazione nazionale dei contadini, con la motivazione delle misure anti-Covid, alla fine li ha autorizzati ad entrare a Delhi nel primo pomeriggio.

Le proteste hanno portato i giusti disagi per far sentire la propria voce: traffico dei pendolari è rimasto nel caos per ore; code interminabili di vetture e camion fermi lungo le autostrade a nord della capitale; sulla linea blu della metropolitana sette stazioni sono rimaste chiuse per tutta la mattina, mentre i treni viaggiavano solo nella direzione in uscita.