Per abbreviare il tempo di sperimentazione dei vaccini contro il COVID-19 si è fatta strada l’idea di infettare direttamente con il virus i volontari subito dopo la vaccinazione. I pareri sulla validità etica e scientifica della procedura divergono, anche se la scelta dei soggetti sarà ristretta a chi ha un bassissimo rischio di sviluppare la malattia in modo grave
Il 20 ottobre, il governo britannico ha firmato il contratto per il primo human challenge study di un vaccino anti COVID-19. Il test avrà luogo sotto la supervisione dell’Imperial College London e sarà condotto presso il Royal Free Hospital di Londra.
Il processo di sviluppo di un vaccino è lungo ed elaborato ma con il diffondersi della pandemia COVID-19 e il crescere dell’emergenza, si è iniziato a valutare l’opportunità di ridurre i tempi ricorrendo a un tipo diverso di sperimentazione.
Si tratta degli human challenge studies (studi di infezione umana controllata) in cui, invece di far tornare alla vita normale il volontario sano dopo averlo vaccinato, gli si inocula direttamente il patogeno per vedere se si ammala.
Anche grazie alle misure di contenimento, infatti, oggi i tassi di infezione tra la popolazione sarebbero troppo bassi per seguire la procedura classica e attendere il contagio naturale. In questo tipo di studi, inoltre, mancano i controlli negativi: dal punto di vista etico sostengono i responsabili dei procedimenti per gli human challenge studies che, “con un patogeno come Sars-Cov-2 è difficile sostenere la decisione di privare una persona del vaccino, anche se non se ne conosce la reale efficacia. Bisogna almeno provare a immunizzarla. E poi vedere se sviluppa il COVID-19.” E così con il passare dei mesi, l’idea di uno studio human challenge anche per il COVID-19 ha preso sempre più piede.

Lo scorso luglio, la richiesta di procedere è giunta direttamente sul tavolo di Francis Collins, il direttore dei National Institutes of Health, in una lettera aperta firmata da oltre un centinaio di scienziati, fra cui 15 premi Nobel.

Non sorprende dunque la notizia, anticipata dal “Financial Times” il 20 ottobre, che nel Regno Unito starebbe per partire un human challenge study per testare il vaccino di Oxford.
Ma sull’opportunità di questa sperimentazione non c’è unanimità a causa delle implicazioni scientifiche, sociali ed etiche.
Al momento, l’intenzione sembra quella di proseguire con le due vie in parallelo, quella classica e quella challenge, perché ciò consentirebbe di mettere insieme più pezzi del puzzle: “Accorciare i tempi, avere più dati, orientare la ricerca e identificare eventuali candidati su cui approfondire la sperimentazione”, spiega Giuseppe Remuzzi direttore dell’Istituto farmacologico Mario Negri. “La procedura degli human challenge studies prevede che si inoculi il vaccino candidato, si qualifichi la risposta anticorpale e solo allora si somministri il virus. Il challenge study può aiutarci a stabilire l’efficacia del vaccino, ma anche a comprendere i meccanismi infettivi e di protezione immunitaria.”

I dubbi e i problemi scientifici di questo tipo di studi sono molti:
Il gruppo di soggetti studiati in un human challenge study è piccolo e, quindi, difficilmente porta all’individuazione di eventuali effetti collaterali rari; ed è omogeneo: ragioni di sicurezza impongono il reclutamento di soggetti con una bassa probabilità di sviluppare malattia in modo grave. In base al documento dell’OMS sui criteri chiave per l’accettabilità etica di questi studi, i volontari dovranno essere sani e di età compresa tra i 18 e i 25 anni.

In questo modo però “il gruppo su cui si conduce lo studio non è assolutamente rappresentativo della popolazione che poi ne beneficerà “, spiega Barbara Zambelli, del Dipartimento di farmacia e biotecnologie dell’Università di Bologna. “La risposta immunitaria si modifica con l’età e le reazioni dei più vulnerabili possono differire alquanto da quelle della fascia a basso rischio.”

La non estendibilità dei risultati divide anche gli esperti dell’OMS: 11 dei 19 autori del rapporto di giugno dell’Advisory Group on Human Challenge Studies sono convinti dell’inapplicabilità agli anziani dei risultati di efficacia ottenuti nei giovani.

D’altra parte, “è inutile illuderci di arrivare a un vaccino che possa funzionare per tutti. Questo non accade neppure con il vaccino antinfluenzale”, taglia corto Remuzzi, proprio mentre dall’MRC Centre for Global Infectious Disease Analysis dell’Imperial College, che collabora com l’OMS, fanno sapere che “anche un vaccino imperfetto e solo parzialmente efficace sarebbe di grande beneficio per la salute pubblica”.

Il modo usuale per verificare se un vaccino funziona è uno “studio sul campo”, in cui i volontari sani vengono vaccinati come parte di una sperimentazione clinica.
I ricercatori confrontano il numero di volontari vaccinati che contraggono l’infezione durante la loro vita quotidiana con il numero di persone non vaccinate che vengono infettate.

Ma questo metodo richiede un gran numero (migliaia) di volontari e si basa su un numero sufficiente di persone esposte a un’infezione in modo naturale.
Ciò significa che può volerci molto tempo per capire se funziona (spesso anni, in particolare se il numero di casi nella comunità è basso).

Challenge study, cosa significa, in che modo sono diversi dai normali test vaccinali e come possono supportare nuovi vaccini per il Covid?

I challenge studies (in cui volontari sani e accuratamente selezionati sono deliberatamente esposti a un’infezione per la ricerca medica) hanno una lunga storia di utilizzo per comprendere e combattere malattie tra cui influenza, tifo, colera, malaria e persino l’umile comune raffreddore.
Il primo passo di un qualsiasi human challenge study da attuarsi con il coronavirus COVID-19 almeno stando agli scienziati dell’Imperial College, sarebbe quello di determinare se è sicuro e di trovare la dose più bassa di virus che può essere utilizzata per causare un’infezione nelle persone. Aspetto oltremodo delicato questo perché i volontari di fatto non avrebbero alcuna immunità, né da un vaccino già testato e sicuramente efficace, né da una precedente esposizione al virus.

Il punto per niente facile della questione è riuscire a dimostrare la sicurezza di questa modalità di procedere, è vero che gli studi sull’esposizione umana al virus possono accelerare lo sviluppo di un vaccino fornendo un’indicazione precoce se un determinato vaccino protegge effettivamente e in modo efficace le persone oppure no, ma è altrettanto evidente che la natura dei rischi correlati sono di gran lunga maggiori.
Con i challenge studies è più facile misurare l’efficacia di un vaccino rispetto agli studi sul campo, perché i volontari vengono esposti alla stessa dose di virus in un momento noto, piuttosto che aspettare l’esposizione naturale, ma ovviamente i rischi per la salute sono di gran lunga maggiori.
Un Human challenge study richiede mesi anziché anni e coinvolge pochi volontari (50-100).
Questi risultati rapidi permettono ai ricercatori di concentrarsi sui vaccini più promettenti e non perdere tempo in opzioni meno efficaci.
Tuttavia, esporre intenzionalmente all’’infezione un volontario sano è eticamente complesso e i potenziali benefici devono superare i rischi connessi.
Esistono principi internazionali ampiamente accettati che vengono utilizzati per aiutare nelle decisioni i comitati indipendenti di esperti a valutare se uno studio di questo tipo è eticamente accettabile e può andare avanti.
Ora, con il coronavirus che causa un’emergenza globale, i ricercatori di tutto il mondo stanno ponendo la domanda: sarebbe accettabile esporre deliberatamente i volontari al coronavirus, (COVID-19) con l’obiettivo di accelerare i vaccini efficaci?

Stando al parere di David Diemert, Professore della George Washington University i rischi sono molto alti perché:
“Non esiste un trattamento di salvataggio efficace e non abbiamo modo di prevedere chi potrebbe avere gravi complicazioni a causa dell’infezione.”

Secondo invece il bioeticista Søren Holm che scrive sul “Journal of Medical Ethics”: “Il beneficio sociale è una conditio sine qua non, perché uno studio con infezione controllata sia etico, poiché è l’unico motivo che, potenzialmente, potrebbe giustificare la principale deviazione dai classici principi etici della ricerca sull’infezione umana controllata in assenza di una cura”. Ogni sperimentazione di questo tipo che dovesse partire, insomma, sarà “benintenzionata ma eticamente non giustificabile”.

 

I Rischi connessi agli Human Challenge Studies:

Il rischio principale di esporre deliberatamente i volontari a questo coronavirus è per la loro salute. Le infezioni da coronavirus possono essere molto diverse per differenti persone: alcune di loro non hanno sintomi, alcune una malattia simile all’influenza che si risolve in poche settimane, alcune si ammalano talmente da essere ricoverate in ospedale e nei casi peggiori muoiono.
Avendo convissuto con il virus per oltre sei mesi, i ricercatori ora parrebbero avere una migliore comprensione dei soggetti che sono a maggior rischio di malattie più gravi. Per ridurre al minimo il rischio per i volontari, sarebbe accettabile consentire i test solo a coloro che hanno il rischio più basso di sviluppare la malattia in modo grave, ad esempio giovani non fumatori sani.
Ma al tempo stesso fino a quando non ci sarà una cura garantita, sussiste il rischio che un volontario si ammali gravemente o muoia.
Oltre ai sintomi immediati causati dal virus, ci sono i sintomi “Long Covid” meno conosciuti che potrebbero interessare i volontari. Poiché il coronavirus è ancora relativamente nuovo al mondo, non si sa molto sugli effetti a lungo termine: cosa sono, cosa li causa, chi è probabile che li riceva o come trattarli.
Una volta esposto al virus, c’è il rischio aggiuntivo che un volontario possa trasmetterlo a persone al di fuori dello studio. Per ridurre al minimo questo rischio, lo studio si dovrebbe svolgere perciò in un’unità di isolamento clinico specializzato in modo che i volontari non siano in contatto con altre persone mentre sono infettivi. Anche il personale che gestisce lo studio, inclusi medici, infermieri, addetti alle pulizie e facchini, e tutte le persone che possano venire in contatto hanno bisogno dei DPI corretti e di tutti i sistemi atti a proteggersi.
Infine, c’è la possibilità che un vaccino che mostra risultati promettenti in un challenge study potrebbe non essere altrettanto efficace in gruppi più vulnerabili, come gli anziani o quelli con differenti condizioni di salute, che sono proprio le persone che hanno più bisogno di un vaccino efficace.
Tuttavia, la sicurezza impone che i challenge studies accettino solo giovani sani e con il minor rischio di malattie.

Ad oggi, sebbene in Inghilterra su questo fronte ci si trovi più avanti che nel resto del mondo, il challenge study per testare il vaccino all’esposizione da covid 19, è stato solo annunciato dall’Imperial College London, dovrebbe essere condotto presso il Royal Free Hospital di Londra, a partire da gennaio 2021, almeno stando a quanto dichiarato sul sito dello stesso Imperial College.

Qualche luce e molte ombre:
Sulla base di queste informazioni di cui a fine articolo è possibile trovare e consultare tutte le varie fonti, ci sono degli aspetti da valutare molto attentamente:
1) Tutti i vaccini mRNA sviluppati finora o in fase di sviluppo, Pfizer-Biontech, Moderna, Astra Zeneca, oppure il vaccino russo e quello cinese, NON sono stati testati sul campo.
Ovvero, una volta somministrato il vaccino non se ne conoscono gli effetti quando la persona vaccinata verrà in contatto con il virus del Covid e della malattia.
Nella fattispecie non ci sono dati ancora di come si comporterà il sistema immunitario della persona vaccinata di fronte al virus.

2) I prossimi human challenge studies, (ovvero somministrazione del vaccino covid e poi esposizione al virus) ad oggi non sono mai stati realizzati con un vaccino per covid-19

3) I challenge studies, per motivi di sicurezza, saranno effettuati su piccoli campioni, 50, 100 persone, giovani sane e a basso rischio di sviluppare forme gravi della possibile malattia.

4) Le categorie più deboli a livello di salute, ovvero anziani, immunodepressi, e le persone interessate da patologie pregresse, sempre per motivi di sicurezza, non potranno essere sottoposte a nessun tipo di human challenge study perché non esiste ancora una cura testata e il rischio di poter provocare danni per la salute fino anche la morte è troppo alto.

5) Sebbene non verranno fatti human challenge studies sulla popolazione più a rischio, su quest’ultima resta forte una domanda: se per vari motivi, (vuoi il rischio più alto di possibili danni per la salute, vuoi perché non esiste ancora una cura testata e sicura al 100% per il Covid) non è possibile condurre test di vaccinazione e la successiva esposizione al virus sui soggetti più deboli, cosa accadrà alle persone di queste categorie più deboli che dicono da Gennaio cominceranno ad essere vaccinate, nel momento in cui successivamente al vaccino entreranno in contatto col virus?

Il diverso significato di vaccino “sicuro”

Dovrebbero essere queste le domande che dovrebbero farsi sia tutti i governi che tutte le varie istituzioni sanitarie, se veramente hanno a cuore la salute delle persone.
Non certo andare a dichiarare “sicuro” come ha detto solo ieri il Presidente dell’AIFA, Magrini, dichiarando anche che: “Nella seconda metà di gennaio ci saranno 1,7 mln di persone vaccinabili con il primo dei vaccini disponibile, quello di Pfizer, ma se i dati saranno confermati, i vaccini saranno verosimilmente tre nella prima fase e quindi i milioni esatti di persone vaccinabili mese per mese li sapremo solo a partire da metà gennaio quando effettivamente ci saranno le approvazioni”

Alla luce della mancanza di molti dati di cui oggi nel modo più assoluto non disponiamo, specie in relazione ad una successiva esposizione al covid-19, appare quanto meno azzardata per non dire oltremodo affrettato dichiarare ad oggi sicuro un qualsiasi vaccino Covid 19 ancora più autorizzarne l’uso, non fino a quando non ci siano riscontri più che esaustivi, i cui dati siano in modo evidente, completi, significativi e rappresentativi di tutte le varie fasce della popolazione per ordine di età e di stato di salute. Disponendo soprattutto dei dati di ciò che avverrà alla salute delle persone non subito dopo la somministrazione del vaccino, ma successivamente, quando queste verranno in contatto con il virus e la malattia.
Tutto questo è da domandarsi a maggior ragione con i soggetti deboli, e gli anziani, che insieme a personale sanitario e forze dell’ordine sono i primi che hanno dichiarato voler vaccinare proprio a partire da gennaio.
Tutto questo deve far riflettere e mettere molta attenzione alla luce del fatto che nemmeno il primo Human challenge study a livello mondiale è ancora partito.

Quanto meno la situazione necessita che qualsiasi campagna di vaccinazione non solo sia rigorosamente su base volontaria, ma che le persone che volontariamente si sottoporranno ad essere vaccinate per il Covid 19, che vengano informate sotto ogni aspetto, con accuratezza e senza nessuna omissione su tutti i possibili rischi connessi. Così come sia i governi che le aziende produttrici dei vaccini vengano impegnate a rispondere in toto e in prima persona anche penalmente, nella figura dei decisori politici incaricati a prendere le decisioni, così come i facenti parte dei vari consigli di amministrazione delle varie aziende farmaceutiche impegnate. Che siano in definitiva responsabili dei possibili danni derivanti dalle loro azioni, come ad esempio possibili omissioni, la poca trasparenza sui dati di cui dispongono, la non esaustività delle verifiche fatte, la mancanza di controlli trasversali e di dominio pubblico, ecc.

La domanda corretta allora, non è vaccino sì o vaccino no, ma vaccino come. Così come viene di domandarsi: adesso, in prospettiva di una prossima vaccinazione, che cosa rappresentano le categorie deboli in questa fase di studio del vaccino? Speriamo che la risposta non sia, cavie da immolare per la scienza, per il progresso e il bene generale, perché in una idea simile si scorgono le stesse caratteristiche di certe ideologie del secolo scorso che hanno portato non poca rovina e sofferenza in tutto il mondo.
E ancora c’è da domandarsi, tutta l’etica, almeno quella finora sbandierata, in cui si sosteneva che i soggetti deboli non erano e non sono sacrificabili, bensì in tuti i modi da tutelare, (affermazione che mi trova oltremodo e completamente d’accordo) dove va a finire questa etica adesso, in previsione di una loro vaccinazione senza disporre nel modo più assoluto di dati completi, specie sulle possibili conseguenze quando in fase successiva verranno in contatto col virus?

 

Forse per dirimere la delicatissima questione, invece che farsi guidare da aspetti come ad esempio il profitto, che guida ad esempio come obbiettivo principale tutte le azioni condotte dalle grandi compagnie farmaceutiche, oppure parlando dei governi altro esempio, invece che mettere e chiedere a loro volta ai propri cittadini una forma di fede quasi cieca, oserei dire fideistica, unicamente nei programmi economici sviluppati dalle grandi aziende farmaceutiche in seno alla salute. Ci si potesse rifare invece a un giuramento, rivisto in chiave moderna e ispirato al ben più antico giuramento di Ippocrate, e che fu pronunciato nel 1995 da un gruppo di dottori “umanisti per la salute”, che operano come volontari al servizio del prossimo, in vari paesi del Sudamerica, Argentina, Bolivia, Cile come anche in Mozambico, in Uganda, in Kenya, in Bangladesh, e in India, gruppo fondato dal Dr Josè  Luis Siddi, medico pediatra argentino presso il reparto di terapia intensiva dell’Ospedale di Buenos Aires:

“Io giuro sul futuro dell’essere umano di credere nella sua capacità creatrice e nella sua capacità di superare il dolore e la sofferenza; giuro di dividere le mie conoscenze con tutti coloro che ne abbiano bisogno e di alleviare le loro miserie, migliorando la qualità della vita, come se si trattasse della mia, e di vegliare sul loro futuro e su quello delle generazioni a venire; giuro di insegnare l’arte del vivere in salute a tutti quelli ai quali posso arrivare con la mia influenza, aiutandoli a superare il dolore e la sofferenza senza alcun tipo di discriminazione. Impartirò le mie conoscenze a tutti coloro che ne abbiano bisogno e metterò a loro disposizione tutti gli elementi necessari al miglioramento del benessere, della salute, e della qualità della vita di tutti gli esseri umani. Farò ricorso a tutte le tecniche e a tutte le conoscenze cui possa avere accesso, rafforzando la fede in me e negli altri. Non utilizzerò alcun mezzo che possa pregiudicare la salute delle persone ed i miei sforzi maggiori saranno dedicati a raggiungere il miglior livello di educazione e prevenzione sanitaria possibile ed al conseguimento di tutto ciò che possa servire ad evitare la malattia”

*Fonti: