Ho conosciuto Gianni Tognoni 30 anni fa ai tempi della Pantera, quando lo invitammo in Statale a spiegarci cosa succedeva nel mondo. Da allora ci siamo visti poco, ma regolarmente; il suo sguardo era sempre estremamente lucido e vedeva oltre il nostro misero orticello. A quasi 80 anni Gianni Tognoni è spesso in viaggio, sempre impegnato, attivo, ma disponibile a venire nelle scuole dove lavoro, che sia a San Vittore o con gli immigrati.

Caro Gianni, raccontaci la tua storia

Sono nato nel 1941 a Gorla Minore, un paesino a nord di Milano. Mia madre era una maestra, mio padre lavorava molto, ma in forma precaria. Abbiamo lasciato quel paese dopo la guerra per andare nella vicina Busto Arstizio, dove sono cresciuto e ho studiato al liceo classico.

A 18 anni, innamorato di San Francesco, “conosciuto” attraverso i suoi frati, ho voluto andare a verificare la “vita religiosa” e ho studiato per 4 anni teologia e filosofia a Roma, passando poi a Medicina alla Cattolica. Erano i tempi di apertura del Concilio Vaticano II, molto importanti per me; ho incrociato tutto quel mondo intorno a papa Giovanni XXIII, ho conosciuto i gruppi che venivano dall’America Latina. Camara, Casaldaliga, vescovi dei poveri e della teologia della liberazione. Teologi europei nuovi e antichi, De Lubac, Congar, Rahner, Schillebeeckx, Joannes. Le esperienze dei preti operai che aprivano orizzonti sociali e culturali, oltre che teologici, molto affascinanti. Ho vissuto a Roma, grazie a diverse borse di studio e a traduzioni di libri, dal ’60 al ’68. Olimpiadi a parte, era davvero un luogo particolare.

Nel ’68, dopo 4 anni di medicina alla Cattolica, mi hanno detto che non potevo più stare lì, ero troppo “coinvolto” in quello che stava diventando il movimento studentesco; il mio modo anche di “consulente spirituale” era considerato troppo “eterodosso”. Sono passato a Milano, dove ho fatto gli ultimi anni di medicina. Ho frequentato molto poco la facoltà, dal momento che mi ero messo a lavorare a tempo pieno all’Istituto di ricerca Mario Negri. Un istituto un po’ anomalo, fondato poco tempo prima da gente uscita dall’immobilismo universitario, dove mi sono occupato di farmacologia. La mia tesi, discussa nel 1970, era sulla trasformazione tecnologica della medicina, sull’impatto dell’informatica allora agli inizi.

Vivevo in una comunità alla periferia Nord di Milano, 10-12 persone, uomini e donne, un mix di operai, insegnanti, infermieri che condividevano una casa. Era la Milano di piazza Fontana. Eravamo grandi amici e colleghi di Carlo Saronio che è stato ucciso, per sbaglio, ma mica tanto, dopo un rapimento per estorsione, fatto da un misto di bande dell’estrema sinistra e della malavita. Quarto Oggiaro, dove vivevamo, era una zona operaia come Sesto San Giovanni, c’erano Prima Linea e Lotta Continua. Quindi ero in questa situazione curiosa: lavoravo al Mario Negri che aveva rapporti con Inghilterra, Stati Uniti, tutto il mondo, ma era ubicato a Quarto Oggiaro. Io poi ho lavorato molto in seguito all’incidente industriale di Seveso, dove nel 1976 esplose l’Icmesa che produceva pesticidi. Avevo cominciato a occuparmi anche politicamente di America Latina, dal momento che prima, a Roma, avevo conosciuto molti di quelli che poi sarebbero diventati gli animatori non solo della teologia della liberazione, ma anche della resistenza alle dittature in Brasile e Argentina.

In quel momento molti esuli avevano chiesto a Lelio Basso di dare una voce ai senza voce, sulla scia di quello che era successo con il Tribunale sul Vietnam promosso negli anni ’66 e ’67 da Russell e Sartre. Nel 1973 mi chiesero di aiutare a mettere in piedi un Tribunale Russell sull’America Latina. Da allora la mia vita è stata sempre sdoppiata, da una parte la ricerca di base, clinica, epidemiologica e dall’altra i viaggi e il supporto alle lotte dei movimenti di liberazione o di resistenza. Nel ’74, dopo il lavoro di denuncia sulle detenzioni, i morti e  le torture in Brasile, mi è stato chiesto di fare un viaggio negli Usa per raccontare tutto questo. Al di là dei tanti movimenti sorti a sostegno degli esuli delle dittature latino-americane, ho avuto la sorpresa-emozione di conoscere all’Università di Harvard scienziati e Premi Nobel (come Chomsky, Wald, Gorini) che erano stati i leader mitici dell’opposizione alla guerra in Vietnam, che si sarebbe conclusa nel 1975.

Nel ’76 abbiamo lavorato ad Algeri alla Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli. La mattina della sua  proclamazione, dopo una notte di lavoro passata a correggere e “fotocopiare” (… niente computer a quei tempi), ho preso un aereo per andare a Ginevra all’Organizzazione Mondiale della Sanità e cominciare un lavoro che poi sarebbe diventato “storico”: un elenco dei farmaci essenziali che avevano realmente un impatto sulla salute pubblica e non rispondevano a “esigenze di mercato”.

Ho cominciato quindi a lavorare per la sanità in quelli che si chiamavano allora “paesi in via di sviluppo”. Viaggiavo un po’ per l’OMS, un po’ per gruppi che venivano creati sui territori, dall’Arabia, all’Etiopia, al Burkina Faso e dopo negli anni ’80, finite le dittature, in America Latina, dove si cercò di trasferire tutta la forte esperienza della costituzione del Servizio Sanitario Nazionale italiano in quei paesi. Il 1978 è l’anno dell’avvio del Servizio Sanitario Nazionale in Italia; nel ’79 c’è stata l’amnistia in Brasile e molti brasiliani sono venuti da noi a ispirarsi alla nostra Costituzione e al Sistema Sanitario. L’Italia era davvero un luogo dove i movimenti avevano prodotto molto: Statuto dei Lavoratori, Sistema Sanitario Nazionale, riforma psichiatrica di Basaglia, movimento delle donne.

La sanità era uno degli indicatori della democrazia. Su questo ho lavorato molto negli anni Ottanta e  Novanta in America Latina: l’epidemiologia comunitaria, che nasce appunto nelle comunità. Parallelamente in Italia come Mario Negri avevamo sviluppato tutto un modo di fare ricerca clinica in modo non da coinvolgere solo o prevalentemente gli “accademici”, ma soprattutto le realtà concrete di assistenza a partire dalle reti ospedaliere reali. Lo studio che facemmo a partire dall’83 sull’infarto del miocardio è stato di fatto il primo al mondo che ha incluso praticamente tutte le unità coronariche italiane. Grazie a quella ricerca capovolgemmo la visione precedente, che era quella di “controllare e selezionare” i pazienti. Si dimostrò invece che un intervento molto semplice di apertura delle coronarie abbassava del 20% la mortalità dei pazienti con infarto. Questo studio ci ha fatto conoscere nel campo della ricerca e ci ha messo in “collaborazione” e “competizione” con inglesi, statunitensi e altri, cambiando di molto la cardiologia italiana. Nel frattempo il mio gruppo al Mario Negri era passato da una ventina di persone a un centinaio, con una moltiplicazione di laboratori, che via via venivano spinti a prendere la loro strada in autonomia.

Cos’è stato il Sistema Sanitario Nazionale e cosa c’era prima?

Il SSN è un sistema di diritto a cui tutti hanno accesso. Prima c’era un sistema sostanzialmente assicurativo pubblico o privato, fortemente eterogeneo in termini di diritto di accessibilità alle prestazioni. Il SSN arrivava come ultimo atto del decennio che aveva visto la crescita dei diritti civili e del lavoro in Italia. C’era una cultura complessiva che, pur dovendo convivere con i tanti problemi della stagione del terrorismo di destra, era orientata al futuro. La ricerca veniva tradotta in progetti che producevano nuove conoscenze riconosciute anche a livello internazionale, ma avevano anche contenuti e applicazioni di salute pubblica un po’ in tutti i campi: dalla cardiologia alla psichiatria, dall’oncologia alla terapia intensiva.

Uno dei settori dove abbiamo prodotto più innovazione, ricerca, salti culturali nel cuore stesso del SSN è stata la medicina di base (o generale, o di famiglia). Le pubblicazioni e i progetti avevano come autore un “acronimo” collettivo; i nomi, elencati secondo i loro compiti, erano alla fine. Negli anni Novanta il Servizio Sanitario Nazionale inizia a degradarsi (in parallelo a trasformazioni simili negli scenari internazionali) e la sanità inizia ad essere economicamente sempre più importante come parte “critica” del mercato, che nel frattempo si era organizzato come OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio). Le istituzioni sanitarie diventano “aziende” (ASL) e il pareggio di bilancio (non la vita dei pazienti) diventa il vero obiettivo. Dal 1995 (prima riforma del SSN) ad oggi i cambiamenti sono stati enormi.

Sei mai stato in paesi dove era in corso una dittatura?

Sì, in America centrale – El Salvador, Guatemala – ma solo per brevi periodi, a sostegno di gruppi locali. Ho lavorato nel Nicaragua appena liberato, però allo stesso tempo andavo in Salvador dove c’era ancora la guerra civile. Anche la Bolivia, dove sono tornato per vari anni, andava e veniva dalle dittature, fino a una volta in cui il Presidente della Repubblica fece uno sciopero della fame per protestare contro l’esercito. In Colombia collaboravo con i gruppi che si occupavano di sanità – erano movimenti legati all’opposizione e quindi minacciati. Sono stato in Burkina Faso prima e dopo l’uccisione di Thomas Sankara. In Burkina avevamo fatto un grosso lavoro che partendo dai farmaci doveva garantire un accesso alla sanità più comunitario; con Sankara al governo c’era un senso di progettualità in cui davvero si pensava al futuro. Il tempo che ha avuto è stato troppo poco e le aperture a livello nazionale e internazionale sono state soffocate. Aveva puntato su sanità e lavoro. Avevamo fatto un manuale di epidemiologia comunitaria, mettendo insieme medici e infermieri che stavano nelle comunità, ma quelli con cui avevo lavorato, dopo l’uccisione di Sankara vennero immediatamente emarginati…