Nuovo attacco contro studenti universitari criminalizzati

L’ultimo decennio in Honduras è stato caratterizzato dalla repressione e violazione sistematica dei diritti fondamentali di persone e organizzazioni che lottano contro un modello politico ed economico che mette in vendita il Paese, privatizza servizi fondamentali, precarizza il lavoro, accaparra terre, saccheggia beni comuni, militarizza territori ed espelle popoli e comunità indigene e contadine.

Dopo il colpo di stato e durante il rettorato di Julieta Castellanos (2009-2017), le studentesse e gli studenti dell’Università nazionale autonoma dell’Honduras (Unah) intrapresero una lunga e tenace lotta in difesa dell’autonomia universitaria e di un’educazione superiore pubblica, gratuita e di qualità.

A fronte dell’atteggiamento repressivo di Castellanos, punta di lancia dei governi prosecutori del golpe contro le richieste del movimento studentesco, i giovani intensificarono le mobilitazioni e moltiplicarono le occupazioni pacifiche delle sedi universitarie in tutto il Paese.

La richiesta di democratizzazione interna e la difesa dell’educazione pubblica ebbero come risposta la criminalizzazione del movimento. Almeno 200 studenti subirono vari tipi di persecuzione. Molti di loro furono perseguiti legalmente, alcuni furono sospesi ed espulsi, altri dovettero abbandonare il Paese.

Ancora più violento, e con evidenti segni di accanimento, fu l’attacco contro lavoratrici e lavoratori organizzati sindacalmente. Oltre a subire vessazioni sistematiche ed essere licenziati illegalmente, furono vittime di assassinio e sparizione forzata, come è il caso dei dirigenti sindacali Donatilo Jiménez Euceda e Héctor Martínez Motiño.

Criminalizzazione

È in questo contesto di persistente aggressione contro il movimento studentesco che comincia l’odissea di Moisés Cáceres, Sergio Ulloa e Cesario Padilla, che nel luglio 2015 furono accusati di detenzione illegale di beni pubblici a danno dell’università.

“Dal 2010 stavamo chiedendo che si avviassero processi di democratizzazione negli organi di gestione universitaria, e che si permettesse di organizzare un organo autonomo di governo studentesco. Nel contempo ci opponevamo all’entrata in vigore di un pacchetto di norme accademiche che avevano ripercussioni negative per gli studenti”, ricorda Cesario Padilla, che attualmente svolge attività di giornalista e difensore dei diritti umani.

Assemblee e proteste si concentrarono principalmente nelle sedi universitarie di Tegucigalpa e San Pedro Sula. Si scatenò una persecuzione che portò all’espulsione di decine di studenti, tra essi Cáceres, Ulloa e Padilla. Un ricorso inoltrato alla Sala Costituzionale della Corte Suprema di Giustizia consentì la loro reintegrazione, segnando una prima sconfitta per le autorità.

Il 2015 segnò una ripresa della lotta studentesca, con l’occupazione delle installazioni universitarie a Tegucigalpa, San Pedro Sula e in vari centri regionali. Dopo aver sollecitato ed eseguito lo sgombero forzato delle università, la campagna di odio delle autorità accademiche, capeggiate da Julieta Castellanos, si rivolse verso le persone espulse l’anno prima.

“Fu qualcosa di assolutamente discrezionale. La rettrice usò i mezzi di comunicazione dell’università stessa per accrescere la sua figura e diffondere l’odio contro chi stava protestando. Per evitare di essere identificati e criminalizzati, studentesse e studenti cominciarono a usare i passamontagna. A luglio Moisés, Sergio ed io fummo denunciati senza alcuna prova”, ricorda il giovane.

Solidarietà

La reazione di varie organizzazioni dei diritti umani fu immediata, sia per denunciare ciò che stava avvenendo, sia per offrire appoggio legale alle vittime della campagna di odio. Nel frattempo il movimento studentesco proseguiva la sua lotta.

Nel 2016 aumentarono le proteste. A giugno di quello stesso anno le autorità dell’Unah fecero causa a decine di studenti. Moisés, Sergio e Cesario furono nuovamente citati in giudizio.

“Durante il rettorato di Castellanos, i processi penali furono lo strumento privilegiato per frenare la protesta sociale. Era tanto l’odio contro il rafforzato movimento studentesco, che si emisero perfino ordini di cattura. E quello stesso odio si rovesciò sulle organizzazioni dei diritti umani che avevano assistito gli studenti universitari.

Alla fine si riuscì a far sedere le autorità a un tavolo di dialogo, obbligandole a riconoscere il movimento come interlocutore e a firmare un fascicolo di petizioni. Tutti i nostri casi furono archiviati”.

Per i tre dirigenti studenteschi si trattava di una vittoria parziale. Il processo iniziato nel 2015 durò due anni. Le autorità dell’Unah, il Pubblico ministero e la Procura richiesero una pena massima di tre anni di carcere e pene accessorie.

Il 7 giugno 2017, la IV Sala della Corte Suprema di Giustizia emise una condanna per il reato di detenzione illegale di beni pubblici a danno dell’Unah. Tuttavia l’individualizzazione della pena, che doveva essere presentata per iscritto nei giorni successivi alla sentenza, fu rimandata per due anni e mezzo.

Campagna d’intimidazione

Si arrivò fino al 1° settembre 2020, quando gli avvocati che si occupavano dei casi di Moisés, Sergio e Cesario si resero conto dell’esistenza di una sentenza di condanna, firmata nell’ottobre dell’anno precedente, dalla giudice Enilda Geraldina Mejía.

Nella sentenza, la giudice li condanna a tre anni di reclusione, all’inabilitazione speciale e interdizione civile per tutta la durata della condanna, così come a lavorare in opere pubbliche o in attività all’interno della prigione. È stata anche dichiarata la responsabilità civile dei condannati e verrà fissata la cifra del risarcimento a favore dell’università.

Nonostante la notizia sia già stata pubblicata, fino a questo momento (9/9) la sentenza non è stata ancora notificata ufficialmente ai difensori dei tre ex dirigenti studenteschi.

“Questo evidenzia il carattere politico della sentenza, divulgata pubblicamente per intimidire la protesta sociale, la difesa dei diritti e la libertà di espressione, in un contesto d’inasprimento degli attacchi alle libertà civili”, segnala in un comunicato il Comitato per la libera espressione (C-Libre).

Capiti quel che capiti – assicura l’organizzazione – Moisés, Sergio e Cesario non andranno in carcere in quanto la durata delle misure cautelari ha superato abbondantemente la condanna imposta nella sentenza. Durante questo periodo, lo Stato si è accanito arbitrariamente contro i dirigenti studenteschi, causando loro danni emozionali, morali, restrizioni lavorative ed educative irreparabili”.

Non appena verrà notificata la sentenza, l’equipe legale ricorrerà in cassazione per chiedere la nullità di tutto il processo penale.

“Non mi pento”

“Abbiamo vissuto cinque anni con il Paese come prigione. Abbiamo perso un’infinità di opportunità di studio, formazione e lavoro. La mia colpa è stata di aver dato il mio contributo al movimento studentesco e aver appoggiato le giuste richieste dei docenti e dei lavoratori dell’università.

Sono anche colpevole di essere figlio di mio padre, Félix Cesario Padilla, poeta e giornalista, professore universitario e sindacalista, sopravvissuto alla sparizione forzata, che ha lavorato per 35 anni all’Unah, senza mai nascondere le sue critiche verso Julieta Castellanos e la sua campagna di persecuzione e criminalizzazione”, afferma Cesario Padilla.

– Ti penti di qualcosa?

– L’unica cosa di cui potrei pentirmi è di non essere entrato prima all’università, perché avrei avuto un anno in più per continuare, insieme a una generazione bellissima di compagni e compagne, a contrastare con forza il potere.

La lotta studentesca è stata la mia scuola di giornalismo, di vita e, ovviamente, di lotta. Nonostante tutto ciò che mi è toccato vivere e patire insieme alla mia famiglia, il dolore è diventato forza e impegno. Han voluto farmi tacere e legarmi le mani. Non ci sono riusciti, né ci riusciranno.

 

Traduzione: Adelina Bottero