Cerco di nascondere il mio dispiacere dietro un ingenuo e inutile scetticismo, faccio finta di non credere ai sondaggi che leggo stamattina, giustifico i freddi numeri e le analisi degli esperti nascondendomi in ottusi commenti da bar. Dicono che la popolarità del diretto responsabile della carneficina che ogni giorno miete mille vittime, cresce, e di molto, specialmente tra la popolazione più colpita: la stessa gente che da sempre soffre sulla pelle le conseguenze dell’abbandono, della fame, della disoccupazione; la stessa gente che muore per Covid tre volte di più degli strati sociali più avantaggiati. La pandemia digrigna i denti e come un dio mesopotamico esige sacrifici umani e tributi di sangue. Homo Sacer, l’uomo sacro, l’uomo consacrato, nell’antica Roma, era colui che, spogliato di ogni diritto per aver commesso atti illeciti contro la divinità, diventava passibile di essere ucciso da chiunque lo desiderasse fare. Homo Sacer, oggi è la massa di un popolo umiliato che offre volontariamente la testa al boia e, salendo i gradini del patibolo, applaude entusiasta. Forse i seicento Reais di ausilio governativo, fanno davvero la differenza. E per seicento Reais è possibile negoziare appoggi politici, consensi elettorali, l’anima e la dignità. Mile anni fa vidi i furgoni caricati di scatole di viveri arrivare sulla piazza della favela. Tra la fogna, i liquami, topi morti e topi vivi, la mia gente in fila ringraziava e benediva il potente di turno. Egli con ampi e solenni gesti, pacche sulle spalle e baci ai bambini, garantiva il futuro della sua potenza. L’amore del popolo era tutto per lui: venghino signori, venghino, ricchi premi e cottilons, pane e lavoro per tutti.

La storia che segue non ha niente a che fare con questo. Sembra ieri, ma è accaduta molti anni fa, tra il mese di dicembre e il carnevale successivo del… quando il paese sembrava intraprendere la strada della convivenza democratica, almeno, così sembrava. Là nel sotterraneo della nazione gemevano i corpi del indesiderabili di ogni epoca. La storia che segue parla di un anonimo figlio del Brasile, nato povero, nella periferia di ogni periferia, nero, un vero Homo Sacer del nostro tempo, pronto per essere massacrato in qualunque momento, solamente per il fatto di esistere, di vivere una vita fuori da ogni regola, una minaccia intollerabile. Era come se la sua esistenza, per essere nero, povero e libero, negasse l’immanenza dello Stato: e pobres são como podres e todos sabem como se tratam os pretos (e i poveri sono marci e tutti sanno come si trattano i neri… è un verso della canzone “Haiti”, di Caetano Veloso, in cui si racconta il massacro di 111 detenuti nel carcere di São Paulo avvenuto nel 1992) con una piccola differenza, lui ha resistito fino alla fine.

Il pen drive è la mia coscienza sporca. So che nelle sue recondite profondità dormono anni di ricordi, anni di lavoro, suadades, ferite ancora aperte, persone che sono sparite in un vortice e che mai più incontrerò. So che forse, solamente l’oblio è capace di curare. So anche che non voglio dimenticare. Edith Moniz, pedagogista, maestra, professoressa, “tia de rua”, maestra di strada, fondatrice del “Projeto Lata-ria”, la scuola itinerante per i bambini senza scuola, dice che è necessario raccontare la storia di ciascuno di loro, non per scolpire parole nel marmo, ma per lasciare che il vento se le porti via, il più lontano possibile, fino agli angeli. Quando la saudade si fa presenza viva, non importa quanti anni siano passati.

Per non dimenticare.

Il Cammino, il Sorriso, il Dolore

Tire o seu sorriso do caminho, que eu quero passar com a minha dor (Togli il tuo sorriso dal cammino che voglio passare con il mio dolore – Nelson Cavaquinho)

Gli appunti si accumulano come scarabocchi in confusi pensieri. Prima di scrivere in bella sul computer, carta e penna per pensare meglio e far fluire le idee fisicamente, in modo che ogni parola usata non sia un bit, ma abbia corpo e consistenza. Stavolta però è più difficile.

Vorrei essere un sambista, un partideiro, un improvvisatore del samba, per riuscire a comporre le melodie più belle e i versi più tristi, metterli insieme in una meravigliosa canzone da cantare sottovoce e consolare, come candela nel buio, le tenebre della mia anima.

Vorrei cominciare raccontando la tua storia, la nostra storia, ma l’unica cosa che mi viene in testa è l’immagine del tuo corpo appeso a un corda alle inferriate della cella. E quella fredda e impassibile nota di due righe in internet…

Prendo l’album di foto, voglio mettere la tua immagine come epigrafe di questo scritto con il tuo nome, Adriano Marinho da Cruz, e quattro semplici parole: Amico, Figlio, Cidadão, Brasileiro.

Amico, perché eri realmente amico di tutti. Abitavi in quella piazza fin da quando, all’età di nove anni, scappasti di casa. Quando la baracca bruciò e il fuoco ti lasciò quella cicatrice sul viso, accanto a quell’altra, il morso di un topo. Amico sì, perché tutti ti volevano bene. Quanti ricordi, Amico mio, quanti ricordi! Le foto sono qui davanti a me, os meninos seduti a scrivere, a imparare a leggere seduti sul muretto, la nostra classe, la nostra scuola. Non ti ho mai raccontato di quella riunione in Comune quando venne modificato il progetto originale del restauro della biblioteca, non te l’ho mai raccontato. La fontana e il laghetto previsti, vennero sostituiti da una semplice aiuola con l’inferriata di protezione. Avevano paura che il laghetto e la fontana si trasformassero nella tua piscina privata. E avevano perfettamente ragione, saresti stato il primo a farci un bel tuffo… E quando hai avuto paura di firmare il tuo nome sulla carta di identità, ti ricordi? E guarda che ci eravamo esercitati per giorni e giorni: i primi segni timidi che si trasformavano piano piano in lettere… Stavi per desistere proprio davanti allo sportello… volevi ritornare a firmare col ditone, come gli analfabeti.., la paura di non riuscirci, la vergogna di sbagliare, di firmare tutto storto… Macché! Il tuo documento oggi ce l’ho io, con la foto e la firma, il tuo nome, il cognome e pure il nome di chi sei figlio!

Figlio: ogni anno tua madre passava il Natale in piazza con te; era la prima cosa che mi raccontavi, felice allegro e orgoglioso: è venuta, è venuta. Tua madre… nessuno l’ha avvisata della tua morte.

Nessuno le ha detto che suo figlio è morto appeso per il collo, assassinato nella cella della prigione dove era rinchiuso illegalmente. Immagina che un famoso giudice si stava occupando del tuo caso per toglierti da lì, mancavano pochi giorni all’udienza, ma tu eri già morto. Casa di detenzione: 700 posti, 1900 i rinchiusi, più del doppio. Uomini trasformati in animali. Non so cosa è successo, la nota di giornale non lo dice, ma gli amici della piazza immaginano i particolari. Sei stato scelto per morire: un messaggio, un monito per tutti, una vendetta, linciato e poi impiccato. E tua madre che non lo sa. Nessuno è stato capace di cercarla in modo che ti potesse seppellire, seppellire suo figlio. Né l’amministrazione pubblica che ti ha incarcerato e ha permesso la tua morte, né la pastorale carceraria che dà la notizia via internet. E allora Adriano, Amico e Figlio, sarò io che andrò da tua madre e con lei piangerò il suo pianto, è una promessa. Che per lo meno possa io cancellare quest’ultimo insulto che ti hanno fatto: essere sepolto in una fossa comune come un indigente. La nota in internet dice ” morador de rua “, uomo di strada, come se tu fossi un vagabondo, un barbone, un pezzente qualunque, come se nessuno lo sapesse che dormivi sotto la seconda tettoia a sinistra, lo stesso indirizzo da anni, e che lì, in quella piazza, lavoravi come posteggiatore abusivo e fattorino dei negozi. No, Amico mio, Figlio mio, tu eri un grande Cidadão che ti facevi in quattro per sopravvivere, eri un Cidadão del mio Paese, Cidadão di uno Stato che ti ha rinchiuso in una gabbia, ti ha linciato e ti ha lasciato appeso alle sbarre fino all’ultimo rantolo, uno Stato che ti ha sepolto come indigente in una bara di cartone nella fossa comune di un cimitero senza nome. Uno Stato che non ha avuto la decenza di cercare tua madre.

Cidadão . È questo che ho pensato ieri al ricevere il tuo biglietto da visita. Gli amici della grafica vicino alla piazza, hanno avuto l’idea: tutti hanno un biglietto da visita, anche tu, e insieme al tuo nome e l’indirizzo ci sono pure i tre cani inseparabili. Il biglietto da visita. La scritta che voglio mettere sotto la tua foto, Adriano Marinho da Cruz, Amico, Figlio, Cidadão , Brasileiro , che portava la sua croce, Cruz, perfino nel nome, come milioni di noi sempre hanno fatto e continuano a fare.

Senza più parole, senza più lacrime, stanchi di tante lotte, di tanto lavoro, senza più sorridere, rimaniamo con il nostro immenso dolore. Un pezzo di noi appeso lì sulle sbarre con te, sepolto nella fossa comune, nella terra rossa del mio Paese.

Adeus, Adriano, Adeus

Il silenzio di un giorno qualunque

Una ricerca rapida quanto basta per durare due mesi. Finalmente oggi ho trovato il luogo esatto, il cimitero, il numero della fossa, la fossa. Nell’abbandono generale, giace il ragazzo assassinato dalla violenza dello stato. Il mio paese ancora una volta ha dimostrato la sua capacità di sterminare i suoi figli più deboli. Ho trovato il suo nome nel registro generale, dove era scritto: morto per cause sconosciute. Per dieci giorni il cadavere ha aspettato qualcuno che lo riconoscesse, qualcuno che dicesse: io so chi è, so chi sei, conosco il tuo nome. Dieci giorni nella cella frigorifera dell’obitorio, ancora una volta completamente solo, totalmente abbandonato. E così è stato sepolto, nella fossa profonda un palmo dove adesso regna la sterpaglia e impera la solitudine. Ho costruito con due fuscelli la croce, che perlomeno sia sacra questa poca terra che ti copre. Una piccola foto, un fiore, il tuo nome.

E adesso è il silenzio di un giorno qualunque.

Potete celebrare, fratelli, è carnevale.

Il carnevale è fatto per questo

celebrare festeggiare cantare ballare

Potete continuare la notte intera

e anche domani

imbevuti di birra

e di tamburi ciechi al male

e sordi alle mie urla.

Non chiamatemi

non invitatemi

Siate felici senza di me.

Ho cercato nella terra nuda

un segno di un figlio mio

che ho visto essere ucciso

nella solitudine di una cella scura

popolata da assassini.

Adesso la terra nuda del mio paese

copre il grido mai ascoltato

la disperazione mai consolata.

Sterpaglia sulla fossa senza nome

e fango tutto intorno, fango sul mondo,

pioggia di fango,

lacrime di fango, le mie,

ché il sangue è terminato.

Ho scritto il tuo nome nel fango, figlio mio,

perché la terra sappia di te,

ho scritto il tuo nome

senza più speranza, senza alcun ricordo.

Ho scritto il tuo nome nella mia carne

ho fatto dell’erba una croce, della croce un segno.

Alla fine della strada

solamente il vuoto dolore dell’oblio.

Potete celebrare, fratelli, è carnevale.