Con almeno 16 nuove vittime e tre giorni di scontri, si è riacceso domenica 12 luglio il conflitto tra l’Armenia e l’Azerbaigian, che ha dilaniato il Caucaso meridionale nei primi anni novanta e non cessa di generare nuove tensioni. Le ostilità sono scoppiate al confine tra la provincia armena di Tavush e il distretto azero di Tovuz: martedì 14 luglio, l’Azerbaigian ha annunciato la morte di 11 membri dell’esercito – tra cui il generale Polad Gashimov – e di un civile residente nel villaggio di Agdam, mentre l’Armenia ha dichiarato che quattro membri delle sue truppe sono stati uccisi.

Le autorità di entrambi i paesi si sono rivolte accuse reciproche circa la violazione del cessate il fuoco e la responsabilità dei nuovi scontri. Gli ufficiali armeni hanno accusato l’Azerbaigian di aver usato dei droni per attaccare la cittadina armena di Berd, prendendo di mira l’infrastruttura civile, e di aver piazzato l’artiglieria presso il villaggio azero di Dondar Gushchu nel distretto di Tovuz, usando i civili come scudi. Secondo la portavoce del ministero della difesa armeno Shushan Stepanyan, uno dei droni sarebbe stato abbattuto. Dal canto suo, l’esercito azero nega le accuse e afferma al contrario che siano stati gli azeri ad abbattere un drone armeno e distruggere un sistema di artiglieria nemico insieme al suo equipaggio.

Le violenze degli ultimi giorni sono state condannate dai rappresentanti di Francia, Stati Uniti e Russia, che presiedono il gruppo di Minsk dell’OSCE – struttura che dal 1992 è incaricata di negoziare una soluzione pacifica al conflitto del Nagorno-Karabakh. I co-presidenti del gruppo di Minsk hanno invitato entrambe le parti a “prendere le misure necessarie per evitare ulteriori escalation, anche attraverso l’uso di canali di comunicazione diretta”. Il gruppo ha anche auspicato che i negoziati per la pace vengano ripresi al più presto, sottolineando la necessità che un contingente OSCE torni a monitorare la zona non appena le circostanze lo permettano. Le promesse, fatte nel gennaio 2019 dalle parti coinvolte nel conflitto sotto mediazione dell’OSCE, di “preparare le popolazioni per la pace” sembrano oggi più lontane che mai.

Secondo Olesya Vartanyan, Senior Analyst presso il Crisis Group, gli scontri sono avvenuti nei pressi del villaggio armeno di Movses, circondato dalle trincee e molto esposto alla frontiera con l’Azerbaigian: quest’area era stata tranquilla nel corso degli ultimi due anni, tanto che i residenti della zona erano riusciti a ristabilire i collegamenti stradali con i villaggi vicini e a riprendere le attività agricole.

Molti media hanno osservato che quella attuale è l’escalation di violenza più seria dopo la cosiddetta “guerra dei quattro giorni” consumatasi nell’aprile 2016. Vartanyan, osservatrice di lunga data del Nagorno-Karabakh, ha però invitato alla cautela sui paragoni: la guerra dell’aprile 2016 aveva coinvolto l’intera linea del confine de facto tra l’Azerbaigian e l’autoproclamata repubblica del Nagorno-Karabakh, mentre le ostilità degli scorsi giorni riguarderebbero una piccola area e coinvolgerebbero solo un numero limitato di armamenti pesanti.

Come spiega Vartanyan, lo scoppio di una guerra presso la frontiera internazionalmente riconosciuta tra Armenia e Azerbaigian non sarebbe conveniente per nessuno: per prima cosa, l’area è densamente popolata e i villaggi si trovano fianco a fianco alle trincee; qualsiasi fuoco pesante comporterebbe moltissime perdite civili. Inoltre, la frontiera ospita infrastrutture strategiche tra cui oleodotti, gasdotti e collegamenti stradali importanti a livello regionale. Infine, un’escalation alla frontiera potrebbe portare all’intervento delle potenze regionali – ovvero Russia e Turchia, con cui Armenia e Azerbaigian hanno sottoscritto accordi strategici.

Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha subito espresso il proprio sostegno incondizionato all’Azerbaigian, mentre Dmitrij Peskov, portavoce del presidente russo Vladimir Putin, si è detto “profondamente preoccupato” riguardo agli scontri e ha dichiarato che Mosca è pronta a fare da mediatore.

Nel frattempo, nella serata del 14 luglio si sono tenute delle grandi manifestazioni di piazza a Baku, capitale dell’Azerbagian, durante le quali i cittadini hanno anche fatto irruzione nel Parlamento. Almeno 30.000 persone sarebbero scese in strada spontaneamente, scandendo slogan di sostegno all’esercito e chiedendo alle autorità di entrare in guerra contro l’Armenia. Un’altra protesta si è tenuta nella vicina città di Sumgayit, che ieri sera ha accolto la salma del generale Gashimov, la cui morte ha suscitato una grande indignazione popolare. A Baku, i manifestanti hanno anche invocato le dimissioni del vice-ministro della difesa e capo dello stato maggiore delle forze armate azere Najmaddin Sadigov, prima di essere violentemente dispersi dalle forze dell’ordine alle luci dell’alba del 15 luglio.

Diversi osservatori del conflitto, tra cui Thomas de Waal di Carnegie Europe, hanno ricordato come l’attuale escalation di violenza (con la relativa esaltazione nazionalista) sia utile ai governi da entrambe le parti per distrarre la popolazione da questioni interne, tra cui la crisi economica e la cattiva gestione della crisi sanitaria legata alla pandemia da COVID-19.

Nella mattinata del 15 luglio la situazione alla frontiera tra Armenia e Azerbaigian sembra essere relativamente calma, ma i recenti scontri rischiano di avere conseguenze a lungo termine sui processi di pace e sulle popolazioni in entrambi i paesi.

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