In lockdown, in load shedding – ossia il taglio della corrente per ore – con il coprifuoco dalle 21 alle 4 e con il bando della vendita di alcolici: così il Sudafrica ha celebrato nel fine settimana il Mandela Day 2020, il giorno in cui si ricorda la nascita, il 18 luglio, dell’uomo che ha reso libero il paese. Un giorno solitamente votato a compiere almeno 67 minuti di buone azioni per gli altri, con gli altri. 67 minuti, in onore del numero di anni che Nelson Mandela ha passato per lottare contro l’apartheid. 67 minuti che quest’anno, con il picco di Covid in corso, più che mai sono stati dedicati all’aiuto ai più poveri. Poveri che sono in aumento per effetto della crisi economica, dei decenni di corruzione e ora per un virus che sta mettendo a dura prova gli ospedali del paese e in particolare chi è privo della copertura delle meravigliose polizze sanitarie.

Perché in Sudafrica – come in molte parti del mondo, forse ovunque – ogni aspetto della vita, della malattia e della morte si divide in due: per i ricchi e per i poveri. E quindi non a caso questo decimo Mandela Day ha avuto come hashtag #Each1Feed1 – ciascuna persona nutre una persona – e #ActionAgainstPoverty – azioni contro la povertà (nella foto). Nelle stesse ore delle celebrazioni, i numeri dei contagi crescevano, facendo arrivare il Sudafrica al quinto posto tra i paesi più colpiti con 15 mila nuovi casi proprio nel giorno dedicato a Madiba, per un totale di 351 mila persone con il virus. Ancora contenuti i numeri di morti, che stanno di poco sotto i 5 mila e che tutto sommato preoccupano meno di quelli dei nuovi disoccupati: ben 3 milioni da inizio confinamento, che sono andati a ingrossare quel 31% di senza lavoro. Una percentuale ufficiale alla quale si affianca una stima considerata più reale e realistica: il 38,5% della popolazione non avrebbe un’occupazione.

Proprio per far ripartire alcune attività lavorative, il Presidente Cyril Ramaphosa ha allentato le misure, strattonato come i suoi “colleghi” nel resto del mondo tra misure sanitarie e tracollo economico. Un quadro nazionale e internazionale difficile, sul quale Ramaphosa ha provato a giocare la carta ancora vincente in Sudafrica: il richiamo all’icona della lotta alla segregazione, l’uomo indiscutibilmente più amato nel paese, anche da quelli che furono i suoi avversari politici. “L’esempio di Mandela ci aiuterà a sconfiggere la pandemia”, ha detto nel suo discorso ufficiale del 18 luglio. Rispetto reciproco, mutua assistenza, solidarietà i punti di forza. Tutto attorno il paese più occidentale del continente si muove a scartamento ridotto, le preoccupazioni e le tensioni crescono e anche le disuguaglianze che i successori di Mandela alla guida dei governi democratici hanno reso più profonde.

Era il 27 marzo quando scattava il livello 5 e tutta la Nazione Arcobaleno si chiudeva diligentemente in casa, che fosse una villa faraonica con piscina a Sandton, un attico con vista mare a Camps Bay o una baracca di latta di 20 metri quadrati con i bagni in comune con altre decine di disperati ammassati nelle sempiterne shacks delle sempre più estese townships.

Il livello in cui si è festeggiato questo 18 luglio è sceso invece a 3, con una moderata riapertura delle attività economiche, benché i contagi e i morti abbiano iniziato a crescere sensibilmente, tanto che Ramaphosa a metà luglio ha estratto la similitudine bellica già usata da altri capi di Stato: siamo in guerra, ha detto per rispondere alle crescenti proteste in merito alle limitazioni dei diritti individuali. Ma poi ha anche avvertito del pericolo ancora non scampato, anzi: “La tempesta è sopra di noi”. 5 mila morti che secondo le proiezioni peggiori potrebbero arrivare a 50 mila, 350 mila contagiati con aumenti giornalieri fino alle 12 mila unità, gli ospedali pubblici al collasso e la necessità di reperire nuovi letti, sia di terapia intensiva sia di medicina generale. Smentite le voci di piani eccezionali di escavazione di tombe: ne aveva parlato Bandile Masuku, il Ministro della Sanità del Gauteng, la regione in cui si trova Johannesburg e al momento la più colpita del paese. Masuku aveva citato una improvvida quanto aleatoria cifra di un milione di morti previsti, un numero impressionante che ha fatto il giro del mondo e che poi lui stesso ha ritrattato. Anche la Ministra della Cooperazione e degli Affari tradizionali, Nkosazana Dlamini-Zuma, ha precisato in un Tweet istituzionale che il governo “lavora per prevenire e curare i malati e pertanto NON sono attesi un milione di morti”.

Per quanto indebolito dalla mala gestione, il sistema sanitario sudafricano sta effettivamente lavorando al massimo delle potenzialità per contenere la diffusione del coronavirus, anche se l’impossibilità di garantire il distanziamento nelle affollatissime townships e le temperature rigide non aiutano di certo. A peggiorare la situazione si è ripresentato, come in tutti gli inverni, il load shedding, cioè il taglio della corrente fino a sette ore al giorno, secondo imperscrutabili schemi diversi a seconda delle aree geografiche, sia in edifici pubblici che privati. Colpa dell’atavica arretratezza di una rete energetica nazionale una volta fiore all’occhiello anche oltre confine e poi per troppo tempo abbandonata al peggiore dei tradimenti, quello ai principi di Mandela e alla fame di soldi e di potere.

Così dal dicembre del 2014, sistematicamente, di tanto in tanto, soprattutto in inverno nelle case e nelle fabbriche, nelle scuole e lungo le strade, nei ristoranti e negli ambulatori si torna alle candele e ai compressori. Un problema enorme che incide come pochi altri fattori sull’economia e sulla sopravvivenza delle piccole e medie imprese, ma anche sulle vite delle persone per non dire sulla credibilità sui mercati e tra gli investitori internazionali: Eskom, la società elettrica nazionale, rappresenta da sola il 15% del debito pubblico sudafricano e invertire questa “spirale mortale”, come  stata è definita, non è e non sarà facile.

E quindi al lockdown si somma il load shedding e insieme producono maggiore incertezza, zone grigie e zone buie, paura, disagio, violenza. Per questo il 15 luglio è stato ripescato dal livello 5, e reintrodotto, il divieto di somministrazione e di vendita degli alcolici: era stata sospeso il 1° giugno dopo numerose proteste di produttori e venditori e degli stessi consumatori, con tanto di assalto ai negozi che vendono alcolici. Il ritorno agli eccessi etilici aveva provocato, dati del governo alla mano, un immediato ritorno nei pronto soccorso di un alto numero di casi legati all’abuso di vino e liquori. Incidenti stradali, aggressioni, aggressioni sessuali, stupri, omicidi: nella prima fase, con la riduzione del consumo di alcolici i ricoveri nei reparti di traumatologia erano diminuiti del 60% e quelli di terapia intensiva del 200%. Dunque una misura per ridurre l’impatto sugli equilibri fragili degli ospedali pubblici messi ulteriormente a dura prova dall’emergenza pandemica, ma anche una misura per tentare di arginare i già alti tassi di crimini commessi nel paese

Già a metà aprile erano stati inviati quasi 100mila soldati a rafforzare i controlli nelle aree maggiormente a rischio, ma come ha titolato anche la CNN in un reportage: “La guerra alle donne non è diminuita di intensità per effetto del Covid”. Anzi. Perché sono le donne, e i bambini, le principali vittime di queste violenze. Nel mezzo della pandemia, il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa è tornato più volte a nominare questa ferita profonda e aperta: “La violenza su donne e bambini ha raggiunto una brutalità incomprensibile”, ha detto. Una situazione anche questa che arriva da lontano e che martoria soprattutto le comunità povere: nel 2013 una campagna shock sulle radio nazionali suonava un gingle ogni 4 minuti, ogni 4 minuti come la cadenza con la quale si consuma una violenza sessuale in Sudafrica. Ma nemmeno quella mobilitazione generale è riuscita a frenare questa “seconda epidemia”, come l’ha definita Ramaphosa pochi giorni fa.