Pochi giorni fa, il 20 maggio, abbiamo celebrato i 50 anni dall’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori: tale legge, la 300/1970, segno’ una svolta epocale di cui oggi fatichiamo a capirne la portata ma di certo la capì la generazione dei nostri padri. Dalle tutele dei lavoratori all’entrata dei sindacati nei luoghi di lavoro, ogni suo articolo concorse a creare condizioni di lavoro dignitose che sono state alla base di uno sviluppo generale del nostro paese e della diffusione di un maggior benessere tra l’intera popolazione nei decenni successivi.

Con l’avvento della globalizzazione liberista negli anni’90, tuttavia, si è avviato un profondo cambiamento: al centro si è posto non il lavoro ma l’impresa  e la finanza, è entrato prepotentemente il concetto di “flessibilità” richiesto dalle aziende per poter stare sul mercato che in italia si è sempre tradotto in minor costo della manodopera e una graduale riduzione dei diritti di lavoratori attraverso il moltiplicarsi di forme del lavoro che in nome di quella “flessibilità”  venivano sempre più celermente introdotte, con l’avvallo anche di una parte della sinistra che vedeva in esse la chiave per un futuro più moderno. Si è proceduti, cosi, in una sorta di “gioco al ribasso” che nell’arco di un ventennio ha portato a un profondo cambiamento del mercato del lavoro e nei rapporti tra capitale e lavoro con netto favore per il primo.
Oggi la situazione è talmente peggiorata che richiede un nuovo statuto dei lavoratori per tentare non solo di ricomporre i cocci drammaticamente provocati dalle infinite rotture di quelle garanzie costituzionali e dalla frammentazione delle forme di lavoro sempre più precarizzate, ma anche per rispondere e nuove condizioni innescate dall’avvento e dall’invasività della tecnologia.
Un nuovo Statuto dei lavoratori dovrebbe ripartire dall’eliminazione delle tante forme di sfruttamento dei lavoratori (dai riders urbani ai lavoratori italiani e stranieri in agricoltura), dall’istituzione di un salario minimo garantito per tutti i lavoratori di ogni settore (a riguardo giacciono da anni in parlamento una legge a firma M5S e un paio proposte dal PD più conservative), dalla totale eliminazione delle “dimissioni in bianco” delle donne in vista della gravidanza che, anche se dichiarate reato nel 2012 con la riforma Fornero esistono a macchia di leopardo nelle aree in cui i controlli non vengono effettuati, dalla riduzione del dramma delle “morti bianche” che nonostante la tendenza a una riduzione continuano a far permanere l’Italia tra i paesi in area Osce con il più alto numero di deceduti sul lavoro (nel solo mese di gennaio 2020 sono stati 52 contro i 44 di gennaio 2019, e mentre diminuiscono di circa il 4% annuo le morti di lavoratori italiani aumentano quelle di lavoratori stranieri dell’8% e dei lavoratori giovanissimi, under 20, del 4,2%).
Nell’ambito della produttività, cavallo di battaglia delle destre, occorrerebbe invece di svilire il lavoro dipendente motivarlo con una formazione continua in grado non solo di aumentare le competenze ma anche la propria autostima: da più parti (anche chi scrive sostiene tale necessità) inizia a farsi sentire la voce di chi chiede periodi sabbatici, durante la propria vita lavorativa, pagati da dedicare all’autoaggiornamento in ambito tecnologico, linguistico, culturale e settoriale cosi da aumentare anche le competenze trasversali necessarie per poter migliorare le proprie condizioni di lavoro e la propria condizione di benessere nei luoghi e negli ambiti lavorativi. Ciò porterebbe inevitabilmente a un aumento della produttività anche a fronte di una minore quantità di ore lavorate, altro grande tema che in un’epoca sempre più segnata da innovazioni tecnologiche, dovrebbe trovare luogo in un nuovo e rivisto Statuto dei lavoratori, che potrebbe accogliere le proposte già presenti in molti ambiti di una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario per lavorare tutti e per utilizzare il “tempo liberato” in forme di impegno civico per le proprie comunità di appartenenza, cosi da migliorare anche la coesione sociale.
Sul versante delle lavoratrici, tra le tante riforme che si potrebbero citare di certo la più urgente è quella cronica della conciliazione tra lavoro e cura familiare e il cambiamento di criteri previsti per gli avanzamenti di carriera (intese nel senso più ampio del termine) valorizzando le loro capacità anche extra lavorative e il grande tema bistrattato della maternità, ancora troppo spesso penalizzato e penalizzante (come anche l’attualità dell’emergenza sanitaria Covid sta evidenziando).
Data l’ampiezza delle riforme necessarie in un contesto cosi profondamente cambiato, non ci si meraviglia se le proposte per la riforma dello Statuto dei lavoratori vengano da più parti, sia dalla CGIL, che dal 2016 al 2018 ha raccolto un milione e mezzo di firme, che da associazioni di categoria come l’Aidp (associazioni direttori del personale).
La svolta è epocale e il ripartire con le attività lavorative in questa Fase2 dell’emergenza sanitaria Covid 2020 potrebbe e dovrebbe essere l’occasione per riprendere con un serio dibattito tale istanza.