È fine febbraio e fuori dal contesto urbano di Dakar è ormai già tutto secco. A pochi mesi dall’ultima stagione delle piogge, ciò che si può scorgere andando verso Matam, nord-est del paese, è una vegetazione dai toni gialli, composta principalmente da arbusti spinosi e paglia.

Qualche pastore, soprattutto di etnia peul, di tanto in tanto attraversa lentamente la strada. Ad accudire le numerose greggi di pecore ci pensano ragazzi e bambini che invece di essere a scuola, passano le lunghe giornate nella steppa del Ferlo, bastone in mano e piedi scalzi, tutto il giorno al seguito dei loro animali.

Nel paese il tasso di alfabetizzazione della popolazione con più di 15 anni è del 50% e la partecipazione all’istruzione secondaria (scuole superiori) raggiunge a malapena il 35%, dato ancora più basso (20%) nella lontana regione di Matam. Infatti, nelle aree rurali del Senegal, nonostante la presenza di qualche scuola, gli adolescenti abbandonano precocemente gli studi per occuparsi delle rispettive famiglie.

A Ranérou (Matam), quattrocento chilometri dalla capitale, si trova un liceo che ospita circa duecento studenti distribuiti in classi miste. La scuola è protetta da alte mura esterne e le piccole aule dove si tengono i corsi sono basse e buie. Nel cortile una giovane ragazza, che potrebbe essere benissimo una studentessa, aspetta pazientemente il momento della ricreazione per vendere i suoi ghiaccioli a base di bouye (il frutto del baobab) e bissap (i fiori del karkadè).

Nel liceo incontro Fati Ba. La cicatrice a forma di 11 che ha ai lati degli occhi rivela, prima che lei stessa possa presentarsi, la sua appartenenza all’etnia peul. Una tale pratica veniva eseguita tempo addietro su bambini e bambine per scongiurare problemi di vista o mal di testa, mentre oggi si usa per ragioni puramente estetiche. Anche le orecchie colme di orecchini e il labbro inferiore tatuato di nero sono segni tipici di appartenenza etnica.

Guardarla in faccia trasmette quasi un leggero timore: le labbra nere e gli occhi dipinti dello stesso colore la fanno somigliare ad una guerriera anche se, quando inizia a parlare, un leggero tremore alla bocca smaschera una ragazza timida, probabilmente non abituata a parlare con degli estranei.

“Abito a sette chilometri da qua, a scuola ci vengo a piedi”, racconta. Fati, come la maggior parte degli studenti di questo piccolo liceo, ogni giorno fa chilometri di strada sotto il sole che batte fin dalle prime ore del mattino per seguire le lezioni. I suoi grandi occhi sono velati da occhiaie profonde che svelano un sonno insufficiente, forse per la sveglia alle prime luci dell’alba o per un fratellino da accudire nel cuore della notte.

“La mia materia preferita è lo spagnolo”, racconta, ripetendo come si chiama e quanti anni ha nella lingua che ama. In classe, Fati si siede in prima fila. I banchi sono piccoli e scomodi, pericolose viti arrugginite sbucano da ogni panca. Nell’aula c’è poca luce e i sessanta allievi presenti, già dopo pochi minuti dall’inizio della lezione, iniziano a farsi aria con la mano. Penso a come debba essere fare scuola in queste condizioni, il sonno arretrato di notti sempre troppo corte, la fatica nelle gambe, il brontolio nello stomaco e poi il caldo opprimente proveniente dal tetto in lamiera.

“È raro vedere ragazze come Fati Ba. E’ fortunata”, mi sento dire da un suo insegnante. “Fati sta frequentando il terminale (l’ultimo anno di liceo), è arrivata fin qua. Di solito alla sua età – quasi diciott’anni – le ragazze peul sono sposate e hanno almeno un figlio, già grandicello. Lei è veramente un’eccezione. Fa bene vedere ragazze peul andare a scuola e studiare il francese, l’unica lingua con la quale sia possibile comunicare con persone di altri gruppi etnici e in contesti diversi da quello domestico.” Se si visita un villaggio peul, ci si accorge concretamente della verità di queste parole. Comunicare con gli abitanti è molto difficile senza un traduttore, è parlata solamente la lingua locale e raramente si trova qualcuno in grado di dialogare in francese.

Oggi in aula c’è un corso speciale e a tenerlo è un’esperta esterna. Si parla di igiene personale ed educazione alimentare. Sì, perché per quanto gli studenti di questa scuola fortunatamente abbiano quasi sempre di che mangiare, spesso è la composizione della dieta che, non essendo equilibrata, rischia di causare problemi di malnutrizione e malattie legate alla scorretta alimentazione.

Durante la dimostrazione culinaria si propone la preparazione di un couscous a base di verdure locali, patate dolci, melanzane e cipolle, poiché rappresenta un piatto riproducibile dalla maggior parte delle famiglie degli studenti. Nel farlo si insegna come cucinare senza rischiare di danneggiare i nutrienti presenti negli ingredienti, questo perché spesso molti cibi vengono cotti così tanto, come il mais, che alla fine si bruciano e diventano potenzialmente cancerogeni.

L’insegnante, una donnona energica e volitiva, riprende anche l’importanza del lavarsi le mani prima di toccare gli alimenti e ne approfitta così per rendere gli studenti portatori di queste preziose, e non scontate, pratiche verso le rispettive famiglie di origine: “Siete voi che imparate a scuola a dover poi insegnare quanto appreso nelle vostre case, ai vostri genitori e ai vostri fratelli e sorelle. Voi adolescenti siete l’obiettivo di questa formazione, ma vi chiediamo di sensibilizzare chi vi circonda più che potete.”

Fa veramente piacere incontrare giovani ragazze coraggiose come Fati Ba che, nonostante la fatica di raggiungere la scuola, ha un obiettivo scolastico che vuole raggiungere, una passione da coltivare e degli strumenti concreti in mano, e nella testa, con cui affrontare presto il suo futuro.

 

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