24 maggio 2014, Andrei Nikolaevič Mironov, giornalista e attivista per i diritti umani e Andrea Rocchelli, fotoreporter, muoiono nelle vicinanze della città di Slovjansk, mentre documentano le condizioni dei civili durante il conflitto del Donbass.
Sono trascorsi sei anni da allora, in cui si è cercato di far luce sulla loro morte.

Nel luglio 2017 viene arrestato un militare ucraino con doppia cittadinanza mentre rientra in Italia per trovare la madre.
Nel 2019 si apre il processo di primo grado che si conclude con una condanna a 24 anni per omicidio volontario.

Il soldato Vitalii Mykhailovych Markiv , il condannato, è membro della Guardia Nazionale, dipendente dal Ministero degli Interni. Nella richiesta di custodia cautelare viene indicato come l’organizzatore di un agguato che ha portato alla morte dei due colleghi.
Durante il dibattimento, cade la teoria dell’agguato, non si può provare che il soldato abbia sparato.
Vitalii Markiv viene così condannato per essere stato l’osservatore che da 1785 metri ha visto arrivare la macchina con i colleghi, li ha riconosciuti, ha segnalato la loro posizione ai suoi superiori che hanno quindi comunicato con l’esercito, che ha poi attivato il fuoco dei mortai. Non solo. Avrebbe diretto poi il tiro dei mortai. Questo stando a quanto ricostruito nelle indagini ufficiali. 24 gli anni di carcere a Markiv per omicidio volontario, così nella sentenza di primo grado.

“Sulla collina però, oltre a Markiv c’erano più o meno altri 140 soldati. Ciò almeno stando agli atti, la 95 esima brigata dell’esercito e la Guardia Nazionale.” Ci fa notare Cristiano Tinazzi, giornalista indipendente, esperto in aree di crisi e collaboratore della rubrica esteri – tra gli altri – de Il Messaggero, Radio Vaticana, RSI – Radio Svizzera Italiana.

Cristiano Tinazzi insieme ad Olga Tokariuk, Danilo Elia e Ruben Lagattolla, sono i realizzatori di un approfondito documentario d’indagine, “The wrong place”  dove si cerca di far luce sui fatti che hanno visto la morte dei colleghi Rocchelli e Mironov.   Durante l’intervista Cristiano ci racconta importanti particolari, alcuni dettagli fondamentali di quella vicenda, frutto di un lungo lavoro d’indagine condotto per oltre un anno, un documento che solleva dubbi e vari punti oscuri su quegli avvenimenti.

“Il processo si basa esclusivamente su prove indiziarie, non vi è prova che il soldato stesse in postazione a quell’ora e in quel momento. Non è stato stabilito con quale ottica potesse aver visto e riconosciuto delle persone a quasi due chilometri di distanza.” Cristiano è un reporter indipendente specializzato in aree di crisi, è stato più volte in teatri di guerra come Siria, Libia, Afghanistan, Iraq e nel Donbass in Ucraina.

“Il problema principale è che non sono stati fatti sopralluoghi, non ci sono stati i Carabinieri del Ros per effettuare analisi e riscontri di visibilità, nessuno è andato a fare verifiche sul luogo. Questo nonostante l’aerea non sia più soggetta a combattimenti dal luglio 2014.” – Spiega Cristiano Tinazzi. – “Non c’è una prova tangibile che Markiv fosse lì a quell’ora, a guardare dentro non si sa che cosa.”

Sono molti i punti oscuri di questa vicenda, a partire dal fatto che dentro il fossato dove sono stati uccisi Andrej Mironov e Andrea Rocchelli erano in cinque. Insieme ai due colleghi uccisi erano presenti anche altre tre persone, il fotoreporter francese William Roguelon ferito a una gamba, un autista locale e un civile, tutti presenti sul luogo dei fatti.

“In quel fossato erano in 5, due di loro muoiono, nell’indagine gli inquirenti interrogano un solo testimone – il fotoreporter francese, – in seguito io trovo gli altri due sopravvissuti, e a nessuno interessa sapere cosa hanno detto gli altri due testimoni oculari?” – Si domanda Tinazzi nel raccontarci alcuni dei dubbi sollevati sulla vicenda della morte dei due colleghi.

“La chiarezza in casi così dolorosi è fondamentale,” – affermano i giornalisti che hanno promosso l’inchiesta da cui poi è nato questo documentario. “Sembra un caso risolto, eppure non lo è, almeno non fino in fondo. Dei fatti legati al processo, se ne è occupato in maniera direi piuttosto critica, anche il New York Times .
I Radicali italiani hanno avviato una campagna per evidenziare le storture di un procedimento giudiziario considerato non equo e inquinato da propaganda.” – Racconta Cristiano durante l’intervista –

“A noi però non interessa se vi siano state o meno infiltrazioni ideologiche o manipolazioni. Ci interessava capire invece come si erano svolti i fatti. Per lavoro (chi perché si occupa da sempre di Europa dell’Est, chi perché è stato in Donbass più volte, e perché facciamo parte del piccolo mondo degli esteri italiano, e quindi ci conosciamo più o meno tutti) abbiamo monitorato questa vicenda fin dagli inizi, incontrando e parlando con molti colleghi che hanno vissuto quei tragici momenti a Slovjansk.”

Ne è nato così un progetto documentario, un lavoro d’indagine di alto livello che ha poi visto innestarsi sopra un’analisi investigativa sulle carte processuali, una ricerca durata un anno e che ancora adesso va avanti.
Un’opera realizzata con una metodologia di lavoro giornalistico che ha sviluppato un modello ibrido di investigazione, unendo esperti di balistica, prove di tiro al poligono, consulenti militari, utilizzo di droni per geomappare il territorio ed elaborare modelli tridimensionali del terreno dove sono avvenuti i fatti.

“Questo lavoro d’inchiesta giornalistica da un certo punto di vista se vogliamo è innovativo, – ci illustra Cristiano – almeno per l’Italia. Perché mette insieme il classico lavoro di inchiesta con elementi tecnici e verificabili. Quello che abbiamo voluto fare era dare affidabilità al nostro lavoro per esulare dal contenuto delle ‘opinioni’, prendere invece le carte del processo, andare sul luogo dei fatti e dire: ok qui si dice che è successo questo… allora verifichiamolo, facciamo prove e riscontri. Per andare oltre le opinioni servivano degli specialisti tecnici, dati, numeri, prove sperimentali, verifiche operative alla mano, ed è proprio quel che abbiamo fatto col nostro progetto”

Un lavoro che si è concretizzato in “The wrong place” (qui ne parla internazionale). Una raccolta di decine di interviste inedite ai colleghi di Mironov e Rocchelli presenti a Slovjansk o che li conoscevano per precedenti incontri, la scoperta di testimoni chiave inediti mai cercati dagli inquirenti (nello specifico due sopravvissuti all’attacco mortale, l’autista del gruppo e un civile che, come loro, è stato sorpreso dai combattimenti quel 24 maggio 2014 e ha cercato di trovare rifugio in un fossato). Sono state ricostruite le ultime 24 ore di vita dei colleghi. Chi hanno incontrato, dove sono andati.

Il documentario, totalmente autofinanziato con il crowdfunding, è previsto in uscita per fine agosto, primi di settembre 2020, ed è patrocinato dalla FIDU (Federazione Italiana per i Diritti umani).

Ma in Italia, almeno finora, pare purtroppo non se ne possa parlare. La FNSI (Federazione Nazionale Stampa Italiana), si è costituita parte civile al processo. La “sentenza” ancor prima che dalla sentenza definitiva dei giudici, pare sia già stata scritta dai giornali. Un velo è stato posto anche sulla possibilità di poter fare un dibattito serio e ragionato sulla vicenda.

“Noi non facciamo i difensori d’ufficio, Vitalii Markiv ce li ha già gli avvocati. Il nostro lavoro d’indagine non è né pro né contro, riporta soltanto dei fatti, delle testimonianze inascoltate, dei dati, procede a delle verifiche tecniche nel tentativo di cercare di capire, perché se c’è un responsabile lo si deve inchiodare, ma non si può prendere il primo che capita e dargli 24 anni senza avere più che verificato, senza avere certezza d’ogni cosa.” Conclude così Cristiano Tinazzi durante la sua intervista.

A distanza di 6 anni, alla luce di vari dubbi e numerosi punti oscuri ancora irrisolti sulle vicende legate alla morte di Rocchelli e di Mironov, la questione fondamentale che ci pare si tenti di sollevare con il puntuale lavoro d’indagine contenuto nel documentario “The wrong place”, è quanto meno di poter discutere, poter aprire un dibattito serio, lucido e distaccato su quanto successo il 24 maggio 2014 a Slovjansk, l’intenzione di tentare almeno di non ridurre il tutto a una questione ideologica, (come a volte avviene in questo Paese, compreso su aspetti di primaria importanza come quelli legati alla giustizia) e che tutto questo ci possa portare lontano dai fatti, da quanto realmente accaduto alle vite spezzate di Andrea Rocchelli e Andrej Mironov.