Anche se non è sempre facile capire il mondo, è comunque possibile comprendere l’essenza di ciò che ci riguarda. Così, comprensibile o meno, il mondo diventa meno ostile nei nostri confronti.
Un post sul sito di France Culture mi ha incuriosito: “Per il filosofo Adorno, dopo Auschwitz non è più possibile fare poesia. “Shutter Island” di Scorsese sarebbe una risposta a questa affermazione?” Non avendo mai sentito parlare di questo film, ho fatto qualche ricerca e, non trovando nulla di convincente sulle pagine cinema, sono andato su Wikipedia. Lì ho trovato una sintesi concreta di uno scenario complesso, con colpi di scena improbabili per creare suspense e fuorviare lo spettatore nella scena finale, che finalmente ti dà la chiave dell’enigma. Il finale di questo thriller psicologico si conclude con un interrogatorio del personaggio principale a un medico nelle cui mani si trova: “Qual è il peggio per te? Vivere da mostro o morire da uomo buono?”

È una domanda interessante e mi ricorda un’osservazione che ho sentito da un sociologo qualche anno fa e che ha avuto un profondo effetto su di me perché ha aperto una prospettiva insospettabile sul vero senso della vita. Intervistato sui riti funebri in diverse culture – un’area in cui si era specializzato – si era rivolto al giornalista con questa domanda:
– Secondo lei, qual è il contrario della morte?
– La vita?
– Questa è infatti la risposta che tutti danno nella cultura occidentale. Ma nella cultura orientale, soprattutto in Giappone, la risposta è: la nascita.

Ricordo ancora lo shock che questa rivelazione mi aveva provocato, seguito da un momento di giubilo. Era come se si fosse aperta una porta, un vero e proprio capovolgimento di prospettiva. Le implicazioni erano incalcolabili.
In questo dialogo cinematografico, l’opposizione non è tra il vivere e il morire – un giorno moriremo tutti – ma tra il comportarsi come un mostro o il comportarsi come un brav’uomo, nel corso della propria vita. Quando si muore, è troppo tardi. Una volta superato lo stallo tra la vita e la morte, la risposta sembra ovvia.

La vita è lo spazio delle possibilità, racchiuso tra la nostra nascita e la morte, che dobbiamo cercare di sfruttare al meglio. La morte in sé, rappresenta solo il momento in cui tutto si ferma, proprio come la nostra nascita ha segnato l’inizio. Due brevi istanti che non scegliamo noi, mentre tra questi due, quanti istanti ci sono, il cui contenuto non è sigillato e che ci appartengono?
Ricordo questa battuta, sentita un giorno, che ancora oggi mi fa sorridere: “La vita è la malattia più mortale.”
Questo è assurdo, ma ha il merito di relativizzare molte cose, buone o cattive, forse anche terribili o sublimi, ma sempre contenute in questo spazio-tempo a noi riservato. A noi, per noi, in via esclusiva.

Non appena ho finito di scrivere una prima versione di questa cronaca – chiedendomi ancora se meritasse di essere pubblicata – è accaduto un evento improbabile che ha gettato un abisso sulla mia stessa esistenza: una lontana parente, la più anziana della famiglia, stava morendo.
È stato per lei che ho dovuto scrivere questa storia! Ho trasmesso il messaggio ai suoi parenti. L’inchiostro si è appena asciugato, senza rileggere, gliel’ho inviato per e-mail. La vita non aspetta, soprattutto quando sta per lasciarti.

Il percorso filosofico di France Culture, che ho finalmente ascoltato per essere sicuro, non ha fornito una risposta alla domanda “Dobbiamo vivere come un mostro o morire come un brav’uomo?” Era una domanda strana! Abilmente, alla fine del programma, Adèle Van Reeth (è una filosofa, produttrice radiofonica e editorialista francese, N.d.T.) ha dato all’ascoltatore la patata bollente, invitandolo a rispondere di persona. La questione era sentita da tempo, per me. Forse dovrei dirglielo. E ringraziarla per aver terminato lo spettacolo con Shine a Light, la versione di Scorsese del film dei Rolling Stones. Una buona scelta, date le circostanze.
“Ho capito l’estremo rischio della perdita o del guadagno a seconda che il bene o il male sia stato fatto nel corso della vita.” Milarepa

NdT: Nel testo originale ‘’Trompe-l’oeil” indica un genere pittorico che porta l’osservatore a una illusione ottica, facendogli vedere oggetti tridimensionali in realtà disegnati su un fondo bidimensionale. Da qui la scelta di tradurre “La vie en Trompe-l’oeil” con “La vita nell’illusione”.

Traduzione dal francese di Raffaella Forzati