La crisi sanitaria provocata dal COVID-19, a causa dell’alta contagiosità di quest’ultimo, ha reso necessaria l’adozione di misure rigide di confinamento e isolamento sociale, che a loro volta sono il preludio alla peggior crisi economica dell’ultimo secolo, paragonabile, se non più grave, alla recessione del 1929. Sullo sfondo della pandemia ci troviamo di fronte alla contrapposizione fra salute o economia, un antagonismo che sembra non avere via d’uscita, poiché l’opzione salute ci aiuta oggi a diminuire il numero di morti per COVID, ma ci mette di fronte a uno scenario economico di un futuro prossimo in cui i morti che oggi evitiamo, aumenteranno per fame e malattie legate all’impoverimento mondiale dei popoli. È importante sottolineare che prima di questa emergenza le morti per altre malattie e per fame nei Sud del mondo, erano già molto più numerose di quelle registrate per il nuovo virus. Il che significa che se questi Sud aumentano e si impoveriscono, la mortalità diventerà incalcolabile.

Bisogna dire che questa contrapposizione fra salute ed economia non è assoluta né inevitabile, tranne che nel contesto del capitalismo e in modo particolare nella sua fase di globalizzazione neoliberista. Se ci poniamo al di fuori di queste coordinate, non c’è contraddizione e nemmeno il futuro di impoverimento sociale annunciato dalla crisi economica. Nelle righe che seguono, provo a esporre le ragioni che negano l’inevitabilità di questa contrapposizione.

Senza uscire dallo schema capitalistico, semplicemente allontanandosi dalla formula neoliberista, già alcuni Stati ricchi parlano di assumere i costi economici del confinamento per sostenere le aziende e con esse, i posti di lavoro, affinché l’impatto della crisi economica sia meno forte. Si sta dibattendo sulla nazionalizzazione delle aziende e anche la Germania considera la possibilità di muoversi in questa direzione. Un intervento da parte dello Stato, quindi, a sostegno del sistema capitalistico, che come sempre comporterà il trasferimento di capitale sociale al mondo privato, probabilmente con più controllo, pianificazione e protagonismo dello Stato, di quello che il neoliberalismo propone. I Paesi del nord che hanno accumulato e concentrato molta della ricchezza mondiale, potranno compiere manovre nel contesto capitalista per sostenere il proprio sistema. È inoltre possibile che il piano contempli una radicalizzazione neoliberista e si decida di porre fine alle piccole e medie imprese per promuovere una maggiore e quasi assoluta concentrazione di capitale in grandi corporazioni reduci dal fallimento, impoverendo così le proprie società. Questa opzione avrebbe conseguenze sociali forse non desiderate per i propri Paesi, a meno che questi non siano disposti ad abbandonare la democrazia e a ricorrere a una gestione governativa apertamente autoritaria.

Per quanto riguarda i Paesi del Sud, in particolare quelli dell’America Latina e più specificatamente l’Ecuador, il futuro nel segno del capitalismo, annuncia un processo di immiserimento radicale e crescente della popolazione già impoverita. La conseguenza di questa crisi economica per i nostri popoli è un depauperamento nefasto esteso a una gran parte della popolazione e quindi, un aumento delle malattie, di morte e violenza di ogni tipo, distruzione sociale, corruzione a ogni livello, paura, angoscia, crescita del crimine organizzato, etc: un panorama realmente apocalittico. Chiaramente, nei paesi poveri non c’è capitale accumulato necessario ad affrontare questa crisi, perché è stato ripartito fra i governi e le corporazioni nazionali e internazionali, lasciando gli stati in bancarotta. A ciò si aggiunge la mancanza di governi coerenti che pensino almeno ad adottare misure come la nazionalizzazione delle imprese; al contrario ora vogliono vendere le poche rimaste, aumentare le attività estrattive continuando a distruggere l’ambiente e saccheggiando i beni sociali e naturali, finché non rimarrà nulla.

L’unica alternativa che abbiamo noi popoli del Sud del mondo per evitare questa catastrofe sociale ed ecologica, è uscire dal capitalismo e dagli orizzonti ideologici creati da questa crisi, che hanno condannato l’umanità e in particolare i popoli del sud, alla distruzione. Con uno Stato in fallimento economico, dobbiamo esigere la socializzazione del capitale della banca privata e iniettarlo nella società, riattivando la piccola e media produzione comunitaria, collettiva e familiare, dando priorità a ciò che è essenziale per la vita, cioè garantire un’alimentazione sana, salute, educazione e casa per tutti. Trovare un equilibrio fra vita sociale e sistema solidale, che riequilibri i redditi del popolo – riducendo i salari di chi guadagna di più e alzandoli a chi guadagna meno -, aumenti gli impieghi attraverso la decentralizzazione della produzione e la commercializzazione di prodotti, socializzi le terre e dia incentivi a chi lavora nei campi e a chi vuole tornare a lavorarci. Dovremo ridurre il livello di consumo di ciò che è superfluo e inquinante, attraverso la promozione dei mezzi di trasporto a energia pulita, come la bicicletta, come si sta facendo in molti paesi europei.

Queste alternative annienteranno i gruppi di potere economico, prime fra tutte le banche e le grandi corporazioni, impoverirà i settori delle classi medio alte evitando il depauperamento della maggioranza della popolazione e con esso la distruzione sociale e il declino verso la barbarie. Avremo una vita più lenta, con meno cose superflue, meno viaggi di certe élite, meno globalizzazione e più “glocalizzazione”, pacificazione, ambiente sano, etica e soprattutto più comunità in cui sentirci protetti.

Questa crisi sanitaria ci mette davanti due opzioni che sono agli antipodi. La prima è un ritorno alla normalità con più indipendenza al libero mercato internazionale e ai suoi giochi economici e politici perversi, distruzione dell’ambiente, dei popoli e degli animali, incremento esponenziale della violenza politica, sociale e ideologica, aumento di femminicidi, genocidi, malattie, disoccupazione, morte, migrazioni forzate, crimine organizzato. Più capitalismo selvaggio che ci consumerà fino all’arrivo del prossimo virus che metterà fine all’umanità. La seconda opzione comporta l’abbandono del capitalismo e l’orientamento a una vita comunitaria, più semplice, solidale, locale, pacifica che curi le ferite lasciate dalla violenza del capitale nei nostri territori, nei nostri corpi, nelle nostre vite. Una vita di comunità che abbia cura di noi, delle altre specie animali con le quali conviviamo e che abbia cura del pianeta del quale siamo ospiti.

La maggior parte di noi non ha scelta: o andiamo verso la vita comunitaria, o moriremo. Non abbiamo il capitale rubato e accumulato per costruire fortezze, muri, bunker o per andare nello spazio come i piccoli gruppi di potere mondiale, colpevoli di questo caos, che si nascondono nelle loro tane tecnologiche per proteggersi dal cambiamento climatico, dai virus e soprattutto da noi, moltitudini impoverite. Abbiamo una sola strada da seguire, costruire le nostre arche comunitarie per navigare nelle acque agitate della caduta del mostro capitalista coloniale e patriarcale e assicurare così il seme della nuova umanità.

Natalia Sierra

Tradotto dallo spagnolo da Maria Vittoria Morano