Il 28 aprile è la Giornata mondiale vittime del lavoro e dell’amianto. Le restrizioni per l’emergenza covid19 impedirà anche in quest’occasione che quest’anno si ripetano celebrazioni e cerimonie pubbliche ma non mancheranno messaggi istituzionali, buoni propositi e retoriche. E, come in tante altre occasioni – dalle giornate in ricordo di chi è morto combattendo le mafie, basterà rivedere cosa sta accadendo in questi giorni tra meno di un mese e sarà lampante l’ipocrisia e quanto i paroloni provano a nascondere ben altra verità, a quelle per le vittime del lavoro, dei disastri ambientali, per la Terra, il diritto all’acqua, la libertà dei popoli e di stampa a tante altre –  dietro i discorsi si nasconde una realtà molto più drammatica. E ingiusta perché il 28 aprile è una delle giornate in cui vengono “celebrate” le vittime a cui nel resto dell’anno si nega giustizia.

In Italia la vicenda più conosciuta è quella di Casale Monferrato, l’abbiamo ricordata l’anno scorso in quest’articolo https://www.pressenza.com/it/2019/05/svoa-di-vasto-uccisi-dallamianto-e-beffati-dalla-giustizia/ sulla storia dell’ex Svoa di Vasto, in Abruzzo, e sulla catena di ingiustizie che prosegue contro i lavoratori esposti per anni all’amianto, molti dei quali si sono ammalati e anche morti, e le loro famiglie. I mesi passano e nessuna schiarita, nessuna svolta verso il rispetto e la giustizia delle vittime appare all’orizzonte. L’uso dell’amianto in Italia è stato bandito con la legge 257 del 1992, 62 anni dopo che in Inghilterra se ne dimostrò la pericolosità e 49 anni dopo il primo riconoscimento di risarcimenti ai lavoratori in Germania. Ma il killer silenzioso non è solo passato e, ancora oggi, tantissimi sono i luoghi non bonificati mentre secondo molti studi scientifici il picco delle morti non è ancora arrivato, alcuni ne stimavano l’avvio proprio quest’anno mentre l’anno scorso l’Osservatorio Nazionale Amianto ha ricordato che “in Italia, ci sono ancora 40 milioni di tonnellate di materiali contenenti amianto, di cui 33 milioni compatto e 8 milioni friabile. Ci sono un milione di siti contaminati, di cui almeno 50mila industriali, e 40mila siti di interesse nazionale” riportando la stima che il “picco di mesoteliomi e di altre patologie asbesto correlate si verificherà tra il 2025 e il 2030”.

L’amianto ucciderà ancora per i prossimi 130 anni denunciava il presidente dell’Osservatorio Ezio Bonanni 3 anni fa e che le bonifiche “non finiranno prima di 85 anni”. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato in 125milioni i lavoratori esposti all’amianto killer nel mondo e solo in Italia ogni anno sono 6000 persone circa quelle che uccide, 3600 per tumore polmonare, 1800 per mesotelioma e 600 per asbestosi. Un rapporto di Legambiente riporta che ci sono ancora circa 370mila strutture che contengono la fibra cancerogena comprese 2400 scuole, 1000 biblioteche e 250 ospedali e almeno 300mila chilometri di tubature idriche. In linea d’aria la distanza tra Roma e Città del Capo, in Sudafrica, è 8.465 chilometri, tra Helsinki e Sydney di 15.222.

I freddi numeri delle statistiche ci restituiscono un quadro della situazione generale, di cosa accade e le dimensioni della minaccia che continua ad incombere. Ma non ci raccontano il dramma dei lavoratori che si sono ammalati, del calvario vissuto con le famiglie, dell’inferno che è piombato nelle loro vite, di persone che si sono ammalate e sono morte perché un loro familiare lavorava in luoghi letteralmente immersi nel killer. O perché vivevano non molto distanti. E di cosa hanno subito e subiscono nelle aule di tribunale, della lotta per avere sacrosanta giustizia. Il 28 gennaio scorso è morto un ex operaio della Isochimica di Avellino. Era il ventinovesimo operaio ucciso da una malattia che è stata considerata conseguenza dell’amianto presente nello stabilimento ed è morto a due anni di distanza dal cognato, morto anche lui per una grave malattia ed ex lavoratore dello stabilimento. Si era costituito parte civile nel processo di primo grado a Napoli per i tanti operai ammalatisi e morti dopo aver lavorato nella fabbrica di Avellino. Durante le ultime udienze del processo Carlo Sessa, uno degli ex operai della Isochimica, ha raccontato che durante le pause pranzo lui e i suoi colleghi tornavano a casa o andavano altrove mantenendo gli abiti di lavoro, solo dopo il 1985 ricoperti con “tute prima in tnt e poi in tyvek, estremamente fragili – e quindi facili a rompersi – e porose, ragion per cui trattenevano molto le fibre di amianto” e mascherine-filtro in plastica e caschi con sistema di areazione integrato che, però, altro non facevano che “riciclare la stessa aria dello stabilimento. Quei caschi erano alimentati con batterie dalla brevissima durata, una volta esauritesi le quali, bisognava letteralmente correre in magazzino a cambiarle per non essere soffocati”. Eppure furono considerati dispositivi di sicurezza ed introdotti nella fabbrica seguendo le indicazioni degli studiosi dell’Università Cattolica di Milano. “L’unico sistema di areazione erano i nostri polmoni e le porte aperte dei capannoni – ha raccontato sempre Sessa – Ad Isochimica c’è amianto ovunque. Una prima fossa piena di rifiuti si trova tra i due capannoni A e B; un’altra nel piazzale antistante l’entrata principale; una terza alle spalle del capannone B. Nella prima fossa, quella tra i due fabbricati, c’è praticamente di tutto: i sacchi con l’amianto, le tute con cui ricoprivamo i vestiti e i residui di bostik che usavamo nelle lavorazioni” aggiungendo che “su quella striscia di terra” fu piantato un albero di Natale un anno “che seccò completamente”.  All’Isochimica “una generazione uccisa dall’amianto” con “il 90%” degli operai malato denuncia il titolo di un reportage di Antonio Musella pubblicato da Fanpage (https://youmedia.fanpage.it/video/aa/VlT29eSwYqg2LTAA ) il 2 dicembre 2015. “Negli anni ottanta 3.000 carrozze dei treni delle Ferrovie dello Stato italiane vennero portate nella fabbrica Isochimica di Avellino, per rimuovere l’amianto che vi si trovava all’interno” scrive Antonio Musella sottolineando che “i circa 300 operai della Isochimica hanno lavorato per anni senza protezioni in mezzo a migliaia di tonnellate di amianto, lavorando a mani nude, senza tute e senza maschere. Oggi il 90% degli operai dell’Isochimica ha malattie polmonari”, dei 300 operai solo 9 “sono riusciti ad andare in pensione” mentre “tutti gli altri” si son ritrovati a combattere “quotidianamente con le malattie polmonari”. Il reportage documenta “cosa c’era all’interno della fabbrica prima del sequestro e come gli operai seppellivano l’amianto all’interno di una fossa scavata dentro lo stabilimento”.

L’amianto ancora oggi è presente ovunque e uno dei luoghi dove più compare sono le baraccopoli dei braccianti sfruttati nelle campagne italiane. In queste settimane si è tornato a parlare dei braccianti perché molti non sono più in Italia, manca la manodopera strilla la grande economia italica. Quell’economia che troppo spesso si regge sullo sfruttamento, sul caporalato di persone a cui – in nome del profitto, dell’economia, di interessi elettorali e di una concezione dell’economia disumana – vengono negati tutti i diritti a tutte le ore. Perché, dopo essere stati sfruttati tutto il giorno, a sera sono costretti a sopravvivere in baracche con il tetto in amianto e spesso danneggiato. E quando le lastre si danneggiano le fibre volano nell’aria e diventano molto più pericolose per la salute. Il reportage di Alessia Candito pubblicato da Repubblica (https://www.repubblica.it/politica/2020/04/25/news/soumahoro_taurianova_braccianti_calabria-254834772/ ) il 25 aprile sulla baraccopoli di Taurianova, realizzato con Aboubakar Soumahoro dell’USB, ha documentato tra le tante i “vecchi ruderi rattoppati alla meglio, con plastica a coprire i buchi nelle lastre di eternit che fanno da tetto”.