Nella notte tra il e il 26 e il 27 marzo 1970, esattamente 50 anni fa, moriva Alcide Cervi.

“Moriva” non è il termine più adatto, come recita una strofa della bellissima canzone “La pianura dei sette fratelli” , i figli di Alcide non sono mai morti.

Nemmeno lui è davvero morto, perché a tenere in vita Alcide e sua moglie, i 7 figli e il loro compagno Quarto Camurri, restano l’instancabile nipote Adelmo, figlio di Aldo, che ha preso il posto di sua cugina Maria nel narrare a loro Storia, restano il museo nella loro casa, le poesie (Salvatore Quasimodo , Gianni Rodari e la canzone a lui ispirata “sette fratelli”), un film, i libri, le innumerevoli pagine su vari siti, i tanti comuni in cui si celebra a tavola la pastasciutta antifascista del 25 luglio.

Ma andiamo con ordine.

E’ una famiglia particolare quella dei Cervi, Alcide e Genoveffa Conconi hanno 7 figli: Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore e due figlie, Rina e Diomira.

Erano mezzadri affittuari, ma nel 1934 cercano la loro indipendenza e si spostano al podere dei Campirossi che trasformano ad immagine e somiglianza delle loro ambizioni agricole moderne, delle loro letture scientifiche. Sono uniti, sono curiosi, sono autodidatti, sono pieni di voglia di vivere: studiano, sperimentano, falliscono, ritentano, riescono.

Aldo è il primo a dichiararsi antifascista. Insieme a Didimo Ferrari fonda una Biblioteca Popolare con libri per difendersi dallo sfruttamento, per essere liberi di pensare fuori dagli schemi.

Racconta suo figlio Adelmo: “Aldo era già partigiano prima ancora di toccare un’arma. Partigiano perché di parte, di quella parte che lui sentiva giusta […] La parte della pace, della giustizia, dell’uguaglianza. La parte dei fratelli Cervi” tratto dal libro “Io che conosco il tuo cuore” di Adelmo Cervi.

Pian piano Aldo coinvolge tutta la famiglia, che intanto è cresciuta, ci sono 4 spose e 10 bambini (23 persone in tutto).

Casa Cervi diventa un laboratorio di antifascismo applicato senza rinunciare al progetto di agricoltura di progresso.

Il primo trattore, una “macchina del futuro” in quegli anni, arriva nel ’39.

Quando il 25 luglio 1943 arrestano Benito Mussolini, Alcide racconta:

“Il 25 luglio vengono e ci dicono che il fascismo è caduto, che Mussolini è in galera”.

“È festa per tutti”

“Ma il piacere è breve […] la guerra continua al fianco dei tedeschi”

“Facciamo esplodere la contentezza, intanto si vedrà”

A quel punto dice: “Facciamo vari quintali di pastasciutta, insieme alle altre famiglie. Le donne si mobilitano nelle case, intorno alle caldaie, c’è un grande assaggiare la cottura, e il bollore suonava come una sinfonia. Ho sentito tanti discorsi sulla fine del fascismo, ma la più bella parlata è stata quella della pastasciutta in bollore”.

E alla fine ne cucinarono più di 380 chili, e ogni anno in molti comuni italiani si ripete il rito della pastasciutta antifascista, una festa per ricordare quella loro straordinaria iniziativa.

Tutti i fratelli prendono le armi dopo l’8 settembre; la loro casa diventa un ricovero per fuggiaschi e resistenti di ogni nazionalità.

All’alba del 25 novembre 1943 i sette fratelli vengono sorpresi in casa assieme ad alcuni componenti della loro “banda”.

Un plotone di militi della Guardia Nazionale Repubblica circonda l’abitazione, su precise indicazioni da parte di delatori locali.

L’ordine dei fascisti è chiaro: arrendersi subito, deporre le armi, consegnare i prigionieri rifugiati. I fascisti e gli assediati si scambiano colpi di fucile e mitraglia, per alcuni un accenno di resistenza, per altri un fuoco serrato.

In ogni caso, la reazione dalle finestre della casa è breve, perché in poco tempo stalla e fienile sono avvolti dalle fiamme.

Ci sono donne e bambini, la stalla è piena di mucche, tutta la decennale fatica di Papà Alcide e della famiglia sta andando rapidamente in fumo.

La resa è inevitabile. Vengono arrestati i sette figli maschi di Alcide, il padre stesso, Quarto Camurri, Dante Castellucci (Facio) e il russo Anatolij Tarassov, più 3 soldati alleati unitisi al gruppo partigiano. Le loro strade si dividono presto, perché ai soldati stranieri viene riservato un trattamento migliore.

Lo stesso “Facio”, fingendosi francese, non verrà trattenuto dalle milizie reggiane.

Molti di loro proseguiranno l’esperienza partigiana sull’Appennino.

Restano in carcere Alcide e i suoi 7 figli. Vengono uccisi il 28 dicembre 1943 i sette fratelli.

Una fine forse attesa per alcuni (Aldo e i fratelli più “esposti”), inconcepibile per altri, improvvisa per tutti.

Muoiono assieme Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore e Quarto Camurri.

Spesso consegnati al racconto e all’immaginario pubblico come cosa sola, i fratelli Cervi sono sette storie distinte.

Tra memoria e narrazione, non è facile separare queste biografie, ma sono da leggere, una ad una, sette storie di sette fratelli .

Alcide resta solo in carcere dopo averli visti portare via, non sa, non vuol capire, scriverà anni dopo ne “I miei sette figli” “Maledetta la pietà, e maledetto chi dal cielo mi ha chiuso le orecchie e velati gli occhi, perchè io non capissi, e restassi vivo al vostro posto!”.

In occasione del bombardamento alleato di Reggio Emilia, il 9 gennaio 1944, riesce a fuggire fino a casa, dove ha una convalescenza di 40 giorni. Ha 68 anni, è provato da 50 giorni in galera, la famiglia gli tace l’accaduto finché si riprende. Una recita pietosa di pianti soffocati sull’uscio della sua stanza.

Un dolore troppo grande. Cosi grande che muore Genoveffa dopo pochi mesi, distrutta da tanto dolore, non bastavano le figlie, non bastavano le nuore, non bastavano quegli 11 bimbi (il figlio di Gelindo nasce 2 mesi dopo la morte del padre).

Muore e per lei Piero Calamandrei scrive l’epigrafe:

Quando la sera tornavano dai campi
sette figli ed otto col padre
il suo sorriso attendeva sull’uscio
per annunciare che il desco era pronto.
Ma quando in un unico sparo
caddero in sette dinanzi a quel muro
la madre disse:
“Non vi rimprovero o figli
d’avermi dato tanto dolore
l’avete fatto per un’idea
perché mai più nel mondo altre madri
debban soffrire la stessa mia pena.
Ma che ci faccio qui sulla soglia
se più la sera non tornerete.
Il padre è forte e rincuora i nipoti
dopo un raccolto ne viene un altro
ma io sono soltanto una mamma
o figli cari
vengo con voi”.

Alcide Cervi Famiglia

Famiglia di Alcide Cervi (cliccare per ingrandire)

 

 

Di loro resta quella magnifica fotografia che li ritrae tutti assieme (cliccare sulla foto per ingrandire)

 

 

 

 

Alcide Cervi Famiglia

(Cliccare per ingrandire)

“C’è una fotografia. Ritrae quattro donne, undici bambini e un vecchio. una foto ormai carica di decenni, una foto del secolo passato.

Bianco e nero, una sfumatura di livido, neppure l’ombra di un sorriso appena accennato.

Quel sorriso che ti aspetteresti, almeno dai piccoli, dai bambini che probabilmente aspettano solo di tornare a giocare sull’aia, tra gli alberi o in riva ai canali.

Forse c’è il sole, intorno, il sole caldo e feroce della campagna emiliana. Ma non c’è sole in quelle facce, non c’è allegria in quegli occhi.

Tra i sopravvissuti, i resti di tre generazioni. Le donne sono vedove, i figli sono orfani. Quanto al vecchio, ha perso tutto quello che poteva perdere.

Salvo un filo di voglia di vivere, sottile ma resistente come l’acciaio.

Dietro, accanto a loro, c’è la casa, la grande casa in mezzo alla fertile campagna emiliana.

Un’antica nave che ha appena attraversato un oceano nero sconvolto da onde in tempesta, una tempesta chiamata guerra.

Perdendo, lungo la traversata, una parte fondamentale del suo equipaggio. La nave c’è ancora, ammaccata e stanca, senza più vele al vento, consumata dal fuoco e dall’odio, segnata dalle pallottole, depredata di beni e suppellettili. E di uomini.

Ma il vecchio comandante seduto nella foto sa che bisogna andare avanti, che nella campagna dopo un raccolto ne viene un altro, che i tanti nemici del contadino non gli hanno mai impedito di ricominciare da capo ad arare, a seminare, a coltivare quella ricca terra che per anni ha sfamato tutti. Loro e non solo loro.

Quanti volti, quante storie sono passate nella grande nave dei Campi Rossi…” (da “Io che conosco il tuo cuore” di Adelmo Cervi)

Per 25 lunghi anni Papà Cervi è il volto incavato della Resistenza italiana, più a suo agio nell’accoglienza (a volte discreta e dolente, a volte più aperta) nella cascina di campagna, ma sempre disponibile a portare la sua presenza nelle celebrazioni in tutta Italia.

La “vecchia quercia” si spegne a 95 anni, il 27 marzo 1970. Prima di morire aveva stabilito che il patrimonio ideale, morale, materiale di Casa Cervi doveva diventare un museo. E lo è .

La sedia di Alcide Cervi

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Col suo inseparabile gilet sulla sedia impagliata, e tante immagini della famiglia, gli oggetti del lavoro, le lettere che i fratelli scrivono a casa nel mese di prigionia e interrogatori che li separa dall’esecuzione. Raccomandazioni per gli animali, il terreno, la salute di donne e bambini. Il più giovane, Ettore, che li rincuora: sempre coraggio e tutto sarà niente…. e i riconoscimenti

 

 

 

 

 

 

 

Famiglia Cervi

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Non è una storia vecchia, non è una storia di sovversivi. E’ una storia che ci riguarda e che potrebbe capitare a tutti noi se perdessimo la nostra preziosa libertà e la democrazia.