A Rosarno le arance valgono ancora 6 centesimi al chilo. Per raccoglierle ogni anno si recano nella zona, almeno 1500 persone, che vivono ammassati in veri e propri ghetti o in baraccopoli istituzionali. Sono passati dieci anni dalla rivolta che per la prima volta rese pubblica la condizione dei braccianti agricoli nella campagne del Sud: lavoratori nella maggior parte stranieri, sfruttati nei campi per pochi centesimi a cassetta. In quel gennaio del 2010 i migranti rivendicarono i propri diritti di lavoratori, nell’estate dell’anno successivo, anche nella campagne di Nardò i braccianti agricoli si ribellarono al sistema di sfruttamento e caporalato per chiedere giusti salari e condizioni di vita accettabili. Ma cosa è cambiato in questi anni? Lo abbiamo chiesto a Yvan Sagnet, uno dei protagonisti della rivolta di Nardò, scrittore e sindacalista, portavoce della Rete NoCap, nominato nel 2016 Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica italiana dal presidente Sergio Mattarella.

Sagnet, in questi giorni è stato il decennale della rivolta di Rosarno. Cosa è cambiato realmente per i lavoratori delle campagne in questi anni?

C’è ancora tanto da fare, ma bisogna ammettere che qualcosa è cambiato: dopo Rosarno e Nardò e le altre piccole rivolte che ci sono state, sono aumentate le denunce e piano piano qualcosa di positivo è emerso. Oggi abbiamo una legge sul caporalato, che non risolve tutto il problema ma è di sicuro un passo in avanti rispetto a qualche anno fa. Il caporalato esiste in questo paese da decenni, oggi finalmente con questa legge la magistratura ha qualcosa in mano per poter operare, si possono avviare processi. E’ l’unica legge che affronta dal punto di vista penale il problema del grave sfruttamento nel nostro paese.

Qualcosa è cambiato anche per quanto riguardo l’auto-rappresentazione dei migranti, da quelle prime rivolte hanno cominciato piano piano a rivendicare i propri diritti, diventando soggetti attivi della protesta.

Sul piano della consapevolezza dei propri diritti da parte dei migranti è cambiato molto. Ed è sicuramente un aspetto positivo. Dalla rivolta di Rosarno e dalla quella di Nardò è poi nata una dinamica politica e sociale sul caporalato. Oggi la stampa se ne occupa rispetto a dieci anni fa e anche questo è importante sul piano della consapevolezza dell’opinione pubblica. Ma fatto salvo tutto questo va anche detto che c’è moltissimo ancora da fare. E la situazione non è cambiata nelle campagne, perché il problema persiste. Il tema è stato affrontato secondo un punto di vista che non affronta il problema nella sua interezza ma solo attraverso risposte parziali. Il fenomeno è strutturale e la risposta doveva essere tale.

Quali sono i punti da cui ripartire per affrontare realmente il fenomeno?

Come No Cap stiamo passando dalla protesta alla proposta. Pensiamo che affrontare il tema solo sul piano repressivo sia un limite, bisogna pensare anche alla prevenzione, e occuparsi in particolare delle cause, non solo degli effetti. Per esempio il tema dell’accoglienza e del superamento dei ghetti è sacrosanto, ma i ghetti sono funzionali a un sistema che non funziona. I caporali lo stesso, non serve solo arrestarli  ma bisogna aggredire in profondità le cause: è il modello economico neoliberista capitalistico che genera tutto questo. A monte ci sono soggetti, come le multinazionali della grande distribuzione che impongono regole sbagliate e insostenibili e che schiacciano tutta la filiera. Alcune regole sulla formazione dei prezzi e dei prodotti vengono dalla grandi distribuzione organizzata, e sono talmente bassi che non consentono ai contadini di vivere del proprio mestiere. E questi, a loro volta, schiacciano  l’anello più debole della catena che sono i braccianti.

Cosa si può fare oggi per cambiare la situazione?

Bisogna intervenire sulla tracciabilità delle filiera, che porta tutti ad assumersi una responsabilità: a partire dalla grande distribuzione, passando per i contadini e infine i consumatori. Anche i consumatori, infatti, devono capire che il loro potere d’acquisto è molto importante.

Quindi un consumo critico che si interroghi sul basso prezzo del pomodoro o degli altri prodotti che portiamo in tavola. 

Se il consumo è inconsapevole fa solo danni e alimenta un sistema perverso. Un euro speso per l’acquisto di un prodotto può alimentare un circuito che genera sfruttamento, caporalato e tutto il resto. Il consumo critico per noi è un valore. Non è solo uno slogan: bisogna costruire i presupposti per mettere il consumatori nella condizione di poter fare questa rivoluzione. Quando un consumatore sensibilizzato sul tema vuole comprare i prodotti certificati, di una filiera etica, dove può farlo? E’ qui il problema.  Non c’è ancora un mercato etico, è solo di nicchia. Vogliamo far capire ai consumatori che acquistare un prodotto etico vuol dire costruire un mondo migliore. Ma ci deve essere un mercato vero. Per esempio Iamme è uno dei nostri partner, che ha messo sul mercato un marchio distribuito dalla Gdo e certificato da noi. Quindi possono trovare nei supermercati i prodotti etici. Ci sono altri marchi che stiamo seguendo cercando di lavorare sui mercati tradizionali e biologici. La forza del sistema attuale è che il 75 per cento della distribuzione in Italia e nel mondo è controllato da una minoranza di multinazionali della gdo che fa bello e il cattivo tempo. Per ridare dignità ai lavoratori dobbiamo sfondare nella grande distribuzione, riconoscendo il prezzo giusto ai produttori. E questo è un problema che riguarda tutti, basta pensare alla rivolta dei pastori sardi per la questione del basso prezzo del latte.

Quali sono gli altri aspetti su cui si deve lavorare ancora?

Per noi di fondamentale importanza è il tema dei contratti collettivi. Poi c’è la questione degli altri diritti, come quello all’accoglienza, all’avere un permesso di permesso di soggiorno e un mezzo di trasporto decente per raggiungere le campagne. Questa è la nostra impostazione: se non troviamo gli alloggi per le persone che lavorano all’interno della nostra rete, il progetto non si fa. Il prossimo 22 gennaio, per esempio, inaugureremo la prima struttura privata dedicata alle vittime di caporalato, che accoglierà 50 ragazzi nel Metapontino. E’ un progetto che vogliamo portare avanti anche in diverse province.

Il governo ha annunciato un Piano anti-caporalato, come giudica questo impegno?

Noi facciamo parte dei tavoli nazionali e ci auguriamo che il governo possa mettere in pratica le proposte annunciate. Aspettiamo sul campo che il governo si muova, finora non abbiamo visto nulla di concreto.

Eleonora Camilli da Redattoresociale.it

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