Riceviamo e volentieri pubblichiamo quest’articolo che ci hanno inviato gli amici del movimento per salvare il Parco Bassini.

 

Noi “ambientalisti del NO” che si oppongono a sviluppo e progresso? Ma il progetto del Politecnico col suo iter procedurale non è più accettabile nel 2020. Dal punto di vista ambientale ci riporta indietro di 20 anni

In questi primi giorni del 2020 la vicenda del Parco Bassini del Politecnico di Milano è letteralmente esplosa. La questione è particolarmente spinosa perché ha assunto dei significati simbolici e politici allo stesso tempo.

Alcune centinaia di cittadini, studenti (i maggiori frequentatori di quell’area verde), ambientalisti, rappresentanti di gruppi politici e un compendio di docenti dello stesso Politecnico in opposizione con la decisione assunta (senza lasciare spazio ad alcuna partecipazione) dall’Ateneo hanno attraversato Milano in corteo e manifestato di fronte a Palazzo Marino lo scorso 9 gennaio, nella speranza che le loro ragioni fossero ascoltate, ottenendo però solo di essere bollati dal sindaco Sala come “ambientalisti del no”.

Questa etichetta non rappresenta per nulla chi oggi si oppone al progetto del nuovo dipartimento di Chimica. Nessuno ha mai contestato l’opportunità di inserire un nuovo edificio del Politecnico in Città Studi. Il no non è mai stato rivolto all’opera in sé, bensì alla collocazione individuata su un’area-parco esistente da più di 50 anni in un quartiere con pochissimo verde residuo e in cui, per di più, molti edifici sono destinati a “svuotarsi” per trasferimenti vari (Università Statale, IST, Besta, ARPA).

Un’altra etichetta che nelle dichiarazioni stampa dei sostenitori del progetto è stata attribuita ai contestatori è quella di “opporsi allo sviluppo e al progresso”. Anche in questo caso occorre fare una precisazione.

Costruire oggi un edificio al posto di un parco, un’area verde libera da edifici e non protetta da vincoli, rappresenta un esempio tipico del modo di agire di un passato molto prossimo che non può essere più accettato nel 2020. E’ ormai assodato che, quando si prendono decisioni che hanno delle conseguenze sull’ambiente, sia sempre necessaria un’adeguata analisi preventiva degli impatti, da condursi contestualmente alla progettazione. Eppure, nell’iter procedurale del progetto per il nuovo dipartimento di Chimica, non si ha alcuna evidenza che siano state valutate delle alternative. Al contrario, la valutazione ambientale allegata al progetto è una valutazione a posteriori, e basata sul presupposto che gli impatti non potessero essere evitati. Non vengono indicate misure di mitigazione degli impatti e l’unica misura di compensazione prevista è la creazione di un parco in sostituzione del parco perduto, cosa più che ragionevole perché la funzione e il valore di un’area parco sono ben diversi da quello di semplici alberature di arredo urbano. Il nuovo parco però dovrà sorgere in un’area la cui disponibilità è ad oggi indeterminabile in virtù del processo di decomissioning nucleare in corso. In pratica, una misura di compensazione che non potrebbe essere realizzata prima di diversi anni. Nel computo della compensazione, inoltre, non viene in alcun modo valutata la perdita del suolo naturale e dei suoi servizi ecosistemici, né tanto meno mai valutata la funzione sociale del parco pre-esistente.

E’ mancata poi, in virtù dell’Intesa Stato-Regione richiesta dal Politecnico, una fase di partecipazione pubblica al processo decisionale, nonostante il diritto di cittadinanza all’accesso alle informazioni in materia di ambiente sia da anni recepito dalla nostra stessa normativa.

Tutti elementi che poco hanno a che fare con il progresso e con lo sviluppo sostenibile e che, dal punto di vista della tutela ambientale, fanno tornare indietro di 15-20 anni. E quel che appare paradossale in questa storia è che a dare l’esempio di comportamenti così anacronistici sia un ateneo -il Politecnico di Milano- al cui interno sono coltivate discipline che dovrebbero supportare lo sviluppo sostenibile e non rimanere confinate all’interno delle aule didattiche.

Vorrei che il sindaco Sala e l’assessore Maran riflettessero su questi elementi piuttosto che arroccarsi su posizioni indifendibili e vorrei davvero che si capisse che ci sarebbero stati molti buoni motivi per cercare di avviare una trattativa con la Statale o con i vari enti che stanno per lasciare vuoti degli edifici in Città Studi (Besta, IST, ARPA), al prezzo forse di un minimo allungamento dei tempi (2 anni?) e quasi sicuramente ad un prezzo maggiore da affrontarsi da parte del Politecnico che avrebbe probabilmente dovuto affittare dei locali per i colleghi di Chimica nel transitorio. Ma non è forse quello che fu fatto all’inizio degli anni 2000 dalla Regione e ARPA in attesa della costruzione del Palazzo della Regione, prima di scambiarsi le relative sedi?

Fa semplicemente sorridere la tesi che di alternative non ce ne fossero. Chi è che si arrocca dietro a un NO, allora? Chi dice “No alla distruzione di un parco” o chi dice “No, alternative non ce ne sono”?

Arianna Azzellino, docente di Valutazione Impatto Ambientale del Politecnico di Milano